Lavorare con la sofferenza

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Parlando con una amica che, proprio come me, si sta avvicinando alla fine del percorso universitario per essere proiettata in un futuro ad una professione di aiuto, mi parla del suo timore, la sua quasi reticenza (a mio parere più che giustificata) nei confronti della sofferenza e della prospettiva di una vita professionale accanto a chi nel dolore ci vive tutti i giorni, spesso senza troppe vie d’uscita.
Dico giustificata perché personalmente non credo a chi si è convinto di essere pronto a tutto, a chi dice di sapere già come affrontare qualunque situazione senza aver provato a riflettere nemmeno un attimo su quello che è il vero nocciolo del problema e non credo nemmeno a chi già si pensa assistente sociale, educatore, psicologo, mediatore e terapista tutto in una stessa persona ma non ha ancora sviluppato la più grande capacità che un operatore sociale possa avere: l’ascolto.
Tutte le professioni di aiuto implicano l’incontro con una persona sofferente in modo più o meno importante. L’incontro con l’altro è perciò un incontro con un altro fragile, bisognoso di cura e di attenzione, a volte malato, a disagio, in condizioni di inferiorità sociale, economica, fisica o di non autonomia. L’incontro con l’altro che soffre ci riporta alla nostra realtà psicologica personale e familiare, sia attuale che passata, e ci obbliga a considerare due elementi fondamentali: chi è il curante e perché ha scelto quella professione e come può fare il curante ad affrontare la sofferenza senza esserne travolto.
Il primo elemento ci spinge ad una riflessione, che è opportuno fare sempre nel nostro percorso, sulla storia personale di questa scelta. Come è nata l’idea di questa professione, cosa pensavo di fare, cosa poi ho fatto e ancora quali erano le mie aspettative, quali sono ora le mie condizioni, cosa mi aspetto dal mio lavoro, cosa mi piacerebbe che accadesse per migliorarlo, o meglio ho voglia di cambiare? Sono domande che non possono esaurirsi il giorno dopo la laurea e che ci servono a calibrare giorno dopo giorno il focus del nostro lavoro ed evitare di fossilizzarci su determinati aspetti tralasciandone altri.
Queste sono solo alcune tra le infinite domande che a volte si pongono i curanti. Può anche capitare che il curante non sia consapevole delle ragioni profonde della sua scelta professionale e allora un eventuale malessere sarà proiettato all’esterno di sé con una operazione difensiva “classica” ma piena di pericoli. Tutti i meccanismi di difesa infatti hanno funzioni temporanee e se non sopravviene una modifica del proprio sé l’io è “costretto” ad aumentare l’intensità di tali meccanismi difensivi o di aggiungerne altri a quelli in uso con conseguente e probabile rottura dell’equilibrio psicologico.
Il secondo elemento ci conduce invece sul tema dei contenuti della professione. Ho deciso di fare questo lavoro, sono consapevole (o non sono consapevole) delle ragioni inconsce che mi hanno portato a questa attività ma ho delle domande, mi chiedo delle cose, oppure sono infastidito o stanco. Mi chiedo cosa posso fare per migliorare la mia professionalità, affrontare meglio il mio lavoro, il rapporto con i miei pazienti, vivere più serenamente la quotidianità.
Esiste poi un terzo elemento che complica le professioni di aiuto: si tratta di una dimensione inconscia che spinge a strutturare il proprio lavoro in un modo piuttosto che un altro. La mia organizzazione appare “razionale” ma comporta dei costi umani, delle sofferenze dei pazienti che io attribuisco alle necessità organizzative. Purtroppo le risorse sono quelle, gli orari sono quelli, la struttura è quella, e così di seguito.
Ma è proprio così?
Talvolta tali razionalizzazioni rispondono a un bisogno di difesa dall’ansia persecutoria e depressiva. E così accumulando si arriva ad una condizione chiamata “burn out”. Burn out è un termine inglese che vuol dire tagliato fuori e che noi possiamo tradurre con : crisi, incapacità, mancanza di voglia, mancanza di iniziativa, depressione, pianto, voglia di cambiare, desiderio di essere aiutato, incapace di svolgere il proprio lavoro.
Cosa può rappresentare allora il nostro “salvagente” a cui aggrapparci quando ci sentiamo persi?
 La formazione continua esterna, ma anche personale dell’ interessarsi, incuriosirsi, scoprire. La formazione come guida verso un percorso di cura di sé, in cui imparare ad osservarsi per capire quali sono di volta in volta i propri punti di forza e quelli di debolezza, e dove si impari a tracciare confini precisi fra il tempo in cui si può essere disponibili e quello in cui ci si mette da parte per prendersi cura di sé.

 La supervisione di gruppo o individuale che ci permette di esternare quel mondo che anche involontariamente assorbiamo dai racconti delle persone , dai loro occhi, dalle loro case e che ci portiamo dentro. A volte sentiamo il bisogno di raccontare a nostra volta e la supervisione serve proprio ad avere uno spazio dove potersi confrontare con altre competenze e altre prospettive e dove sentirsi ascoltati. La fatica del lavoro di cura si fa insostenibile quando le difficoltà e le sofferenze si sedimentano dentro di noi senza che si abbia il tempo di pensare con altri la propria esperienza. Prima che la fatica arrivi ad un punto tale da impedire un agire sensato, occorre poter sospendere il proprio fare e mettersi in ascolto della realtà alla ricerca di nuove configurazioni di senso.
Anche nelle vite spezzate dove sembra non ci sia una strada del ritorno la forza è proprio nel riuscire a trovare una via secondaria, magari nascosta a prima vista, ma possibile. La via del vivere bene nonostante la sofferenza o imparando da essa.
La fiducia nel cambiamento e nella possibilità può essere agita anche di fronte alle situazioni che si presentano come i compiti più ardui. Mission impossibile? Chissà, l’importante è impegnarsi a trovare uno spiraglio laddove regna il buio, cercare il bandolo della matassa e iniziare a districarla.
La vera missione è trovare la giusta misura tra il distacco professionale e l’empatia cioè la capacità di co-sentire il vissuto dell’altro che è risorsa irrinunciabile, ma occorre imparare a gestirla, cioè sviluppare quella competenza dell’empatia che consiste nel custodire dentro di sé lo spazio di accoglimento dell’altro.
“ Niente ci rende così grandi, quanto un grande dolore “ diceva Alfred de Musset.
Concordi o meno con il poeta, sarebbe magnifico riuscire a compiere la nostra minuscola parte nel promuovere anche un lieve cambiamento nella sofferenza e non restare più a guardarla impauriti.

Silvia Di Pietro

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7 pensieri riguardo “Lavorare con la sofferenza

  1. ciao, questo articolo ha catturato la mia attenzione perchè sto vivendo sulla mia pelle cosa significa lavorare con la sofferenza (e anche lavorare con sofferenza). Ho iniziato a lavorare da un mese e poco più..sono felicissima per aver finalmente trovato lavoro. Ovviamente però sono anche un pò sotto pressione, perchè è la prima esperienza, perchè mi sembra di non saper far niente, perchè mi sento sempre in errore ecc ecc…in tutto questo caos, presa dalla sensazione d non conoscere leggi e pratiche, mi sembrava che l’aspetto relazionale del mio lavoro fosse quello che meglio avrei padroneggiato, che mi avrebbe creato meno problemi del resto. E invece.. vivo con una gastrite che mi accompagna dal lunedì al giovedì (la mia settimana lavorativa)..e quando vado a casa non mi abbandona. Faccio davvero fatica a incontrare la sofferenza..mi entra tutto dentro senza alcun filtro, sento come un flusso che scorre dalla persona che ho di fronte dritto nel mio stomaco..quando esco dall’ufficio devo concentrarmi per respirare, per liberarmi di un pò di quella pesantezza..questa è la reazione fisica, non parlo poi del confuso nido di pensieri e di dilemmi che mi passano per la mente..insomma, io, da tutti descritta come una persona forte, mi chiedo: ma è davvero il lavoro per me? è normale sentirsi così? penso che con il tempo diventerò più resistente.. ma mi preoccupo anche di questo, perchè ne ho visti tanti di professionisti “resistenti”, che avevano eretto muri piuttosto che reti, dai quali non passava la sofferenza ma nemmeno tutto il resto..quindi penso che continuando a mantenere attivo un dialogo dentro di me, continuando a dar voce alla mia pancia e alle sue emozioni, pian piano saprò trovare un equilibrio. E’ necessario anche l’aiuto di chi ha più esperienza, è necessario parlare e confrontarsi su questi temi. Pian piano costruirò anche io le mie forme di difesa, stando sempre attenta a tessere reti piuttosto che a innalzare muri.

    1. questi scritti, sia l’articolo che l’intervento successivo, sono fonti di riflessione importanti non solo per giovani operatori ma anche per quelli più attempati; provo ad esprimerne alcuni.
      credo che qualsiasi nuova occupazione porti con sè l’ansia della prestazione e la valutazione di sè (progettare un palazzo o un ponte non lascia meno ansie, piuttosto che cuocere un piatto di pasta ad un ristorante se non lo si è mai fatto prima). e se questa “prova” è così faticosa ci si può far aiutare. riguardo al bisogno profondo ad aiutare, la molla che spinge all’aiuto, è da tenere sempre al fianco e guardare e riconoscere ad ogni passo, perchè solo riconoscendone i confini ed il suo volto, ci è possibile fare meno danni possibili (riconoscere la propria impotenza, non sostituirsi all’altro, riconoscere nelle pieghe delle istituzioni le possibili soluzioni). è importante riconoscere il proprio posto, che non è mai sopra, se mai a fianco di chi ascoltiamo, perchè ci consente di fare il percorso insieme (a volte si incorre nel rischio di sentirsi esenti da problemi, pronti a risolvere quelli degli altri e questo ci mette a rischio, prima ancora di mettere a rischio l’utente).
      quanto alla sofferenza non appartiene solo al mondo dei servizi dell’aiuto ma alla vita stessa, a volte è possibile proteggersi, altre volte no, ci attraversa ed una parte di essa ci resta dentro.
      il confronto professionale è fondamentale e se il servizio per cui si lavora non lo consente è necessario andarselo a cercare, e quando ci si sente troppo fragili per una nuova sfida è necessario l’aiuto esterno personale.
      ma soprattutto è utile comprendere quanto il bisogno di aiutare ci è necessario perchè è questo che ci consente di scegliere una professione di aiuto.
      in bocca al lupo

  2. Vi ringrazio di cuore per aver saputo cogliere la vera essenza di questo articolo scritto tempo fa ma che riscopro ora essere utile.
    Tante volte mi sono chiesta quanto di noi, della nostra vita e delle nostre emozioni entra a far parte di una professione come quella dell’aiutare. Dico intenzionalmente “professione” perché credo sia proprio in questa parola la risposta per Sara e per tutti gli operatori presenti e futuri. Non possiamo certo affermare che sia semplice interagire con la sofferenza e allo stesso tempo rimanerne distanti. E’ proprio la parte relazionale, a volte sottovalutata, la più complessa da affrontare. Nella consapevolezza di un aiuto competente e nell’esercizio empatico possiamo trovare la via per non farci travolgere dall’altro. Questo è il mio pensiero di laureanda, chissà in futuro potrei cambiare idea o modalità di azione ma resterò sempre ferma su un punto cruciale: il confronto.

  3. Io ho lavorato 13 anni come assistente sociale, ero motivatissima e interessatissima, avevo (ho) doti empatiche peró devo dire che la situazione del contesto-ente e l’organizzazione del lavoro esistente mi hanno effettivamente spossato. Non posso dire di essere arrivata al burn out ma certamente a livelli importanti di malessere. Mi iscrissi a psicologia, che era sempre stato il mio sogno nel cassetto, anche con lo scopo di trovare risposte peró oggi che sono prossima alla laurea mi rendo conto di aver fatto un bellissimo studio peró forse, da certi punti di vista, ancora piú arido, molto piú arido di servizio sociale. Nel frattempo una vera botta di fortuna che ha del provvidenziale divino (per chi ci crede, e per chi non ci crede sará solo fortuna) mi ha permesso di lasciare il lavoro e trasferirmi all’estero con la mia famiglia (per scelte lavorative di mio marito). Adesso sono prossima a cominciare una formazione in psicoterapia e, sia per questo sia per varie inquietudini che avevo al di lá del lavoro, ho cominciato un percorso di psicoterapia personale. Ebbene, avevo sperimentato la supervisione, ma questo é altro. Rimpiango di non aver fatto questa scelta prima. Prima razionalizzavo: sono molti soldi, molto tempo… Oggi sono lo stesso molti soldi e molto tempo, peró sto davvero sperimentando un cambiamento. Io sono fermamente convinta che, anche se legalmente non é obbligatorio, lo psicologo non possa esercitare senza aver prima fatto un percorso di terapia personale… ma nemmeno l’assistente sociale! Ognuno di noi, per quanto “sano”, proietta inconsapevolmente sul paziente i suoi vissuti, le sue carenze. Solo un buon lavoro personale tramite un professionista esperto puó far arrivare a prendere consapevolezza di ció. Io ho fatto e faró tanta formazione, ma secondo me, al di lá della preparazione accademica, serve veramente un lavoro personale, vivenziale, emozionale. Poi per caritá, io onestamente non tornerei a fare il mio lavoro perché al di lá di tutto era troppo usurante, troppo rischioso, troppo imprevedibile e a 40 anni con 3 figli e tanti problemi pratici non potevo avere la stessa agilitá e disponibilitá che avevo a 25, quando ero libera, sola e con tante energie. Peró sicuramente torneró a fare un lavoro di aiuto e di cura e penso che lo faró con nuovi strumenti e nuova consapevolezza….

    1. ciao Chiara, mi interessa molto il tuo percorso professionale e formativo perchè anche io vorrei intraprendere il percorso di studi in psicologia. Posso chiederti qualche informazione? se ti va possiamo sentirci in privato, su fb o via mail, dimmi tu. Grazie ciao

  4. E’ molto coinvolgente il testo di Silvia, e i commenti..sono temi che attraversano la vita di tutti, e, per chi lavora nei diversi campi dell’aiuto, sono i “fondamenti”..quello che rende davvero una professione quello che è non per il contesto in cui si trova collocata ma per le relazioni, o meglio i legami, che sa avviare, riconoscere, condividere e conservare: con l’altro(chiunque), con sè stessi, con l’idea di professione..con le percezioni ed emozioni che attraversano ogni incontro(e non solo di lavoro..) Si, si vive e lavora con la sofferenza , spesso nella sofferenza, e non è mai solo quella degli altri o dell’altro, spesso(o sempre) è la nostra riattualizzata da quella situazione, da quell’incontro, da quel momento.. Ricordo in supervisione (ricevuta, poi fatta ad altri) come alcuni incontri o storie sembrano davvero catalizzare ansie, esperienze, fatiche di persone/utenti e persone/operatori.. in un gioco di rispecchiamento davvero impegnativo.
    Suggerisco un breve e denso testo di Aldo Carotenuto, “Lettera ad un apprendista stregone” ..aiuta a riflettere su questi temi, anche se..ascoltare, ascoltarsi, ri/pensare..è un lavoro infinito.
    Se avete voglia, anche, di cercare altre fonti, tutto il discorso dei neuroni mirror come radici anche teoriche e biologiche/neurologiche dell’empatia..potrebbero essere una prospettiva.

    Aggiungo:capisco molto bene il discorso di Chiara, e anche le sue scelte: ma si puo’ anche “curarsi” (con una terapia, un’analisi personale ecc.) conservando e garantendo anche in questo modo la “propria” professione orientata al sociale..

    Non obbligatoria forse la strada della psicologia, ma suggerimento per chi lavorerà in campi particolarmente dolorosi e difficili..che possono esserlo in sè(i minori a rischio, i conflitti familiari..) o per quella persona/assistente sociale in quella fase della “sua “vita..
    e di nuovo, occorre ri/flettere..e poi scegliere la propria strada

    Grazie di questa “conversazione” (alla Winnicott)
    Ombretta Okely

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