Frà! Non ce la faccio più…Hai visto su facebook?! Questi parlano di “Brembo Nostrum”…Io ogni tanto non ci capisco più fuori niente.
Nel senso che vado dal medico di base coi ragazzi e in sala d’attesa i signori che parlano in dialetto contro gli immigrati si girano a guardarmi quando si accorgono che li sto fissando e si dicono: “Ehi, abbassa la voce che l’italiano ci sta ascoltando!” e dall’altra parte in ospedale le segretarie dell’odontoiatria mi dicono: “ma lavori in un centro di accoglienza?! Ah, sono quelli che arrivano sulle barche! Ma che bravooooo….”. E mi sorridono come se fossi un confetto rosa con un fiocco sulla testa, dolce e carino…con Ansu, seduto al mio fianco, per il quale traduco, che sorride col suo sguardo ebete, che sembra un uovo di pasqua penso, cioccolata fondente….. nel mezzo di questi discorsi, c’è un vuoto fatto di resistenze, di silenzio duro come il cemento. Mi sento Stretto tra due poli così distanti dalla realtà che viviamo che mi viene difficile spiegare…. Mi piace fare questo lavoro e mi piace vestire la mia pelle bianca…per testimoniare che anche con la pelle bianca si può essere accoglienti…alle volte, però, vorrei essere tra loro ed avere la pelle nera per sentirmi più prossimo…per sentirmi meno bianco…perché le loro aspettative sono le stesse che tu, operatore, vorresti che realizzassero…ma a volte senti di vendere solo del fumo e alle volte te li ritrovi per la strada…perché lo sappiamo tutti che i più sfigati finiranno per la strada a fare l’elemosina…si dice che di solito siano i nigeriani….Quelli un poco più “intraprendenti”, invece, andranno al sud a gonfiare le tasche di qualche camorrista padrone, a fare la fame per un euro a cassetta di arance o pomodori ….
I più “svegli”, invece, i più svegli finiranno per la strada a vendere il fumo…lo stesso che tu gli vendevi con le parole loro finiranno a staccarlo con i denti per cinque euro il pezzo. Finiranno a vivere tra i giardinetti con il fumo in bocca, a tagliarlo con la merda e a rassegnarsi al loro essere il negro della strada. A mostrare i bicipiti per il gusto di giocare un ruolo, ritagliati in se stessi, con il passo morbido e deambulante, piegando il ginocchio come si direbbe di uno zoppo, molleggiandosi con la testa alta, con l’orgoglio di essere tanta bellezza, perché “è più facile usare il proprio corpo come merce che il cervello come strumento di giudizio”, ha detto Pezzi di vetro…
…che poi questi altri dicono ancora fratello e sorella…che bestie pensiamo……quanto sono africani gli africani, pensiamo…freddi e razionali siamo ben consapevoli che la parentela riguardi solo i legami di sangue…che non abbia nulla a che vedere con l’intensità di un legame, o con il modo di porsi…non pensiamo che chiamano fratello e sorella i coetanei e mamma e papà gli adulti….non pensiamo che se si perdono al mercato e hanno bisogno di aiuto fermano qualcuno di più anziano e gli dicono “ehi papà mi sono perso” oppure “ehi mamma, mi sono perso, aiutami”…oppure, “fratello, aiutami”….non l’abbiamo manco nemmeno mai provata quella vicinanza lì…non sappiamo cosa voglia dire sentirsi soli e trovare una madre ed un padre sulla strada…sconfitti ed annebbiati dall’individualismo di essere solo per noi stessi…presi nelle cuffie di discorsi solipsistici, intrappolati nell’ansia incomunicabile di “riuscire” e di “essere
La prima accoglienza, un intervento profondo…non può ridursi a vitto, alloggio, kit…non può ridursi ad una coperta e un “pasto caldo ed un buco x la notte”..non può essere e non è così…è in questa fase che il potenziale eroe si prepara ad un secondo rito di passaggio…certo, attraversando il mare si può affermare che la prova sia stata effettuata…ma detto francamente l’happy-end mi sembra ancora lontano…c’è ancora un mondo davanti, un mondo cui non si è preparati…un mondo che è il contrario del mondo da cui provieni…lì, nel mondo davanti, per sopravvivere, devi camminare a testa in giù e con il viso immerso nell’acqua…devi prendere fiato e trattenerlo e devi gestire lo sforzo e devi soprattutto riuscire a comprendere le cose stando sottosopra…quando parli ogni cosa che dici si capovolge e i tuoi interlocutori prendono il verso inverso di ciò che gli hai appena detto…a loro arriva il contrario anche se tu, dentro di te, lo dicevi dritto…e devi parlare giocando a scacchi, pensi alla mossa successiva prima di dire una parola…sei sempre al dopo, già nel momento in cui la pronunci…stai pensando al dopo….e così parlare diviene una partita lenta e faticosa…anche quando devi chiedere un pezzo di carta da culo…non sai come chiederlo… come non sai esprimere che ti senti sciocco e come un bambino che si confida a mamma quando devi ammettere che non dormi da giorni e che hai bisogno del medico perché c’hai addosso la tristezza…che vorresti andare in farmacia per comprare dei farmaci. “Prastamol!”, ma il paracetmolo lenisce il dolore e agisce sul manifestarsi della malattia, non va alla radice del problema…e la pelle gratta e non tanto per il freddo pungente di Bergamo ma perché è il disagio del presente, del passato e di quel futuro non futuro che crea prurito…e soprattutto tormenta la notte…nel silenzio assoluto quando a far rumore sono solo dei pensieri fastidiosi e assillanti che ronzano nella testa…
E così in cerca di risposte…nell’immobilità totale ciò che si ascolta è il corpo…la testa fa male, così come il ginocchio, la schiena e l’occhio lacrima… dammi i farmaci…non riesco a dormire…ma mi domando quali mali e quali malesseri dovrebbero curare questi farmaci???
Forse cerco un orgasmo nel mezzo di tutta questa stitichezza emozionale. Ho bisogno di solidità. Ho bisogno di sentirmi stabile e centrato e se mi guardo, qui, vedo bianco e, di lì, vedo nero e non mi sento mulatto e ci vedo ad elastico, a volte vicino e a volte lontano. Ci vedo un caleidoscopio di vita, che si ribalta e rigira e a volte mi sento sottosopra.
C’è una storia di una coppia di vecchi signori, che erano sposati da tanto tempo, così tanto tempo che non si ricordavano più perché si erano sposati. Un tempo vicini, avvolti uno nel corpo dell’altra, adesso vivevano la stessa casa di sempre ma con assoluta distanza. Lui viveva sottosopra, con i piedi al soffitto. Bisogna fare un piccolo sforzo per comprenderne l’essenza. Vivevano in due differenti gravità. Una che tira verso il soffitto e una che tira verso il pavimento. Nel soffitto, come sul pavimento del resto, la casa era arredata e tutto stava al suo posto. Cambiavano solo i punti di vista…in questa loro prossima distanza non perdevano occasione per litigarsi il frigorifero, le seggiole e la televisione, scambiandosi grugniti e sguardi tesi. Lui aveva mani grandi e ruvide e lavorava il legno ed il ferro. Lei ricamava la maglia e curava i fiori alle finestre. Da quando si erano allontanati, da quando vivevano su due discorsi paralleli, la casa aveva preso a fluttuare nel cielo. Girando all’impazzata come una trottola aveva smesso solo quando durante uno dei frequenti litigi avevano distrutto la cornice con la foto del loro matrimonio (per inciso, lui voleva il riquadro dal suo lato della casa, mentre lei la voleva girata dal proprio). A quel punto lui per porvi rimedio aveva riparato un paio di scarpe da ballerina che lei indossava durante il matrimonio, chissà quanti anni prima. La storia finisce con un rumore di chiodi piantati nel legno. La donna stava fissando tutte le sue scarpe al soffitto, il pavimento della parte di casa del marito dunque. Lui la guardava incredulo non capendo cosa stesse facendo e capì solo quando la vide fare un grande balzo ed infilarci i piedi dentro. Solo in questo modo riusciva a stare sottosopra e a camminare verso di lui, al suo fianco. Penso spesso che sia importante coltivare querce per non calpestare le formiche perché a volte, ed ogni volta all’improvviso, faville fioccano disordinate.
“è la vita, un giorno va bene l’altro va male, l’importante è restare in piedi con i capelli al vento, l’importante è che mi adatto come posso a questa emanazione di una variante assurda di paradiso errato, come ha detto chissà quale poeta africano” Alain Mabanckou
Scritto da Tobia Scarrocchia, per il nostro Convegno “Persone senza dimora: storie e servizi sociali”