Il progetto “Educare alla legalità” nasce presso l’Uepe di Milano e Lodi ed è sostenuto dall’associazione “Il Girasole”, che collabora con il carcere per il reinserimento degli ex detenuti nella società.
È un progetto in via sperimentale, che sicuramente verrà modificato in alcuni suoi punti, dopo una valutazione conclusiva con gli operatori del progetto e il direttore dell’Uepe.
Il progetto si rivolge ai detenuti in affidamento in prova al servizio sociale dell’Uepe di Milano e Lodi e prevede la formazione di un gruppo, che svolge dei lavori e delle riflessioni, con la supervisione degli esperti, sul tema della legalità. Il gruppo è un impegno extra per gli affidati, che si va ad aggiungere ai colloqui periodici mensili obbligatori con l’assistente sociale.
L’intero progetto comprende 8 incontri di gruppo, condotti da un’equipe costituita da un’ assistente sociale, una psicologa, un educatore ed un avvocato civilista.
Durante i gruppi sono previsti giochi di ruolo e simulate, oltre che approfondimenti psicologici, molto graditi agli affidati. Ci sono state simulate molto interessanti, che proponevano situazioni di bullismo, in cui gli affidati si esprimevano nella loro capacità di gestione dei conflitti e di contenimento dell’aggressività, o un’altra molto carina che ricreava un’assemblea di condominio. In generale, a dispetto delle attività programmate, si da grande libertà agli affidati, che si esprimono nelle loro preferenze e guidano gli esperti nel percorso da seguire e nelle attività da privilegiare.
L’obiettivo principale del progetto è prevenire la recidiva tramite un percorso di accompagnamento durante l’affidamento in prova. Questi incontri, predisposti da specialisti, sono volti a garantire un supporto motivazionale all’obbedienza della legge. Durante gli incontri, infatti, viene posto l’accento in particolar modo sulla rielaborazione critica dell’affidato in merito alle circostanze che hanno portato al reato. È importante che gli affidati si sentano trattati, prima di tutto, come persone, capaci di elaborare il proprio passato e di agire sul presente. È indispensabile che, in un’ottica di reinserimento sociale, gli affidati non si sentano giudicati dagli operatori, ma compresi e ascoltati, in modo tale da poter instaurare un clima di fiducia ed apertura che faciliti il confronto. Questo approccio è, dunque, fondamentale per facilitare una relazione ottimale di sostegno, in un contesto di controllo in cui risulta a volte difficile crearla.
Il progetto è stato predisposto per gli affidati, sia ordinari che terapeutici, che hanno violato la legge sulla droga o che hanno compiuto reati finanziari. Sono state scelte persone che hanno compiuto questo genere di reati perché sono crimini che si ritiene siano, per quanto possibile, più facili da condividere e le cui ragioni possano essere più facilmente discusse in gruppo, rispetto ad un omicidio o ad una violenza.
L’età degli affidati deve essere compresa tra i 25 e i 45 anni e devono aver conseguito un livello medio di scolarità (licenza media o superiore). Quindi per partecipare al progetto è necessario che gli affidati abbiano delle abilità di scrittura di base e di comprensione della lingua italiana. Alcuni affidati stranieri, infatti, non comprendono molto bene l’italiano e altri, invece, non sono in grado di scrivere un breve elaborato: queste lacune possono influenzare di molto l’esito del progetto, che prevede dei piccoli scritti di riflessione su di sé e sui propri sentimenti.
Gli incontri sono stati tutti incentrati sulle emozioni e, in più, hanno previsto l’esame degli articoli della Costituzione italiana. L’attenzione si è focalizzata sulla comprensione delle norme, sull’acquisizione di una piena coscienza dei propri diritti e dei propri doveri, sempre in modalità partecipata e non tramite lezione frontale. Uno dei temi che è stato maggiormente trattato e che sta molto a cuore agli affidati è quello della vergogna e quello dell’impatto che ha avuto la detenzione sulla quotidianità. Spesso si confrontano sui cambiamenti, in bene e in male, che ha provocato la detenzione nel rapporto con i familiari, gli amici e il vicinato; non di rado colgono l’occasione per esprimere le proprie preoccupazioni riguardo alle occasioni lavorative che si prospetteranno. Temono molto che la fedina penale influenzi l’assunzione lavorativa.
Parlando con l’AS referente del progetto ho capito quanto per gli affidati sia importante sentirsi accettati e riconosciuti come persone. Non vogliono essere identificati con il reato che hanno commesso o riconosciuti tra la gente per quello che hanno fatto: “ quello ha fatto una rapina…”, “ quell’altro spacciava…”, “quello là è un tossico…”. Ci sono persone che vivono l’affidamento con superficialità e come un puro adempimento formale in vista della libertà, ma ce ne sono altre che vogliono cogliere questa occasione per costruirsi una vita stabile e per non delinquere più. Certo è che la società, a volte, non è pronta ad accogliere “delle persone che hanno commesso degli sbagli”, citando testualmente un affidato. Il marchio del reato commesso, in alcuni contesti, precede l’ex detenuto e gli rende ancora più difficoltoso il reinserimento, anche in quei casi in cui l’illecito è stato commesso molti anni prima.
Rimane comunque complicato affrontare questa tematica del reinserimento sociale e del rischio recidiva perché ci sono molti aspetti di cui tener conto. Sicuramente non si può attribuire la colpa di un cattivo reinserimento solo alla società, sono molte le variabili in campo, che comprendono anche le scelte politiche di allocazione delle risorse, che in questo ambito sono sempre meno e questo va solo a discapito dei progetti, delle persone, della collettività. Senza contare la responsabilità personale delle proprie azioni e il libero arbitrio.
Non è stato ancora fatto il bilancio del progetto, perché conclusosi da poco, anche se l’esperienza, a detta degli esperti e degli affidati, è stata utile e positiva. Ci sono state delle occasioni in cui, a testimonianza del clima di vicinanza e di apertura reciproca, gli esperti, su richiesta degli affidati, si sono esposti personalmente durante i lavori di gruppo. Gli operatori hanno avuto modo di raccontarsi e di accorciare quelle distanze che a volte ostacolano la relazione con gli utenti.
Eleonora Borgonovi