Moonrise Kingdom (2012) racconta di una fuga d’amore adolescenziale ambientata nell’Inghilterra del 1965. All’interno del film trova spazio anche la figura di un’assistente sociale, rappresentata secondo gli stereotipi più diffusi e persistenti che ancora oggi accompagnano la professione.
Anzitutto viene da pensare che la scelta di Tilda Swinton per interpretare questo ruolo non sia dettata dal caso. Tilda Swinton, infatti, attrice dal volto androgino, ha interpretato ruoli quali l’ambiguo Orlando (tratto dal libro di Virginia Woolf), oppure una strega regina dei ghiacci nel“ Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio”, nonché una fanatica leader di una comunità neo-hippy nel film “The beach”.
Ma, a prescindere dall’attrice, la figura dell’assistente sociale in questo film risulta estremizzata, sia nell’aspetto, sia nei comportamenti. L’AS, infatti, indossa una divisa blu, a metà strada tra un marinaio e un controllore; quando si rapporta con gli altri personaggi non si presenta mai con il proprio nome, ma attraverso l’impersonale etichetta di “Servizio sociale”. Il tratto ancora più sconvolgente è sentirla parlare sempre in terza persona.
Rappresenta l’iperbole della spersonalizzazione e della fusione tra istituzione e professionista. Il suo mandato è prendere in carico il ragazzo orfano e fuggivo per portarlo in un istituto in cui potrebbe anche ricevere l’elettroshock come misura di correzione per i suoi comportamenti! Eseguirà il suo compito nella maniera più burocratica e asettica possibile, valutando il caso solo sulla base delle informazioni cartacee ricevute, seduta nel suo ufficio e senza mai prendere contatti personali con il suo utente. Incarna sicuramente il personaggio più negativo di tutta la storia e solo alla fine del film sembra lasciarsi andare ad uno slancio di umanità.
Il regista ricalca lo stereotipo dell’assistente sociale “ladro di bambini”, braccio senza cervello di un’istituzione capace di agire prettamente sulla base di ordini imposti da un autorità superiore, totalmente privo di un proprio autonomo agire professionale.
Questo film fornisce un altro duro colpo all’immagine dell’assistente sociale, professione che stenta ad affermare, sia nei confronti delle altre figure impegnate nel sociale, sia verso gli utenti, un’immagine dai confini chiari e fondata su principi etici, basati sulla considerazione dell’unicità di ogni persona.
La filmografia, in ogni caso, costituisce uno dei feedback in grado di delineare lo sviluppo o, come in questo caso, la stagnazione dell’ immaginario collettivo. Bisogna però considerare che l’immaginario viene costruito anche attraverso lo stesso mezzo che lo descrive, in un circolo che si autoalimenta. Una sfida presente e futura è quindi lavorare costantemente alla creazione di relazioni significative con l’utente e le istituzioni.
Un’idea potrebbe essere quella di sfruttare la potenza mediatica dell’arte e dell’immagine per far conoscere ed avvicinare gli esterni. Si potrebbero, per esempio, girare dei cortometraggi e dei documentari per divulgare le azioni dell’A.S. nelle molteplici aree di intervento, con lo scopo di rendere meno ambigua e più vicina all’utente la professione. All’interno dei siti internet delle istituzioni e dei servizi, in aggiunta al tradizionale opuscolo esplicativo, potrebbe diventare una prassi pubblicare video in cui l’assistente sociale descrive il proprio lavoro, sia per una questione di trasparenza e chiarezza, sia per dare un volto umano e rassicurante all’utente che si approccia per la prima volta al nostro mondo tutt’oggi oggetto di mistificazioni e leggende.
Monica lutzu
Articolo molto interessante, che conferma la difficoltà degli assistenti sociali ad essere percepiti al di là degli stereotipi, come una professione “vicina” alle persone …
Poi rileggendo mi è caduto l’occhio sul fatto che il film è ambientato nel 1965… magra consolazione, ma in effetti in tutti questi anni l’approccio all’assistenza è cambiato
saluti
Grazie :)… In effetti il film è ambientato nel ’65 e l’assistente sociale in questione non fa pensare nemmeno alla lontana ai moti sociali che avrebbero rivoluzionato il modo di fare e pensare il servizio dopo il ’68
L’ho visto. Un’assistente sociale rigida e stereotipata. Se conoscete dei film in cui la figura dell’AS non lo sia fatemi sapere. 😦 Io finora salverei solo Fabio De Luigi in Come Dio comanda.
Vero, la sola immagine di assistente sociale che sia leggermente più umana.