C’era una volta il blog..

Fino al 2016 il blog è stato aggiornato con continuità grazie al lavoro svolto dagli iscritti al laboratorio “Comunicare il Servizio Sociale”.

Ora che il laboratorio ha cambiato forma e nome (“Fare Associazionismo”) il blog è “congelato” in quanto chiediamo agli studenti altri contributi.

Qui sotto potete leggere tutti gli articoli postati negli anni!BLOG

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Identità di genere e lavoro: gli assistenti sociali uomini

 

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di Eleonora Gnan
Il lavoro, definito come luogo in cui si sostanziano le identità individuali, costituisce un elemento cruciale nei processi di definizione della mascolinità e della femminilità. La marcata femminilizzazione è, fin dalle origini, un dato fondativo della professione di assistente sociale. Tuttavia, i recenti mutamenti socio-economici e famigliari hanno prodotto un profondo cambiamento delle definizioni di maschilità e di femminilità, tanto che all’interno della forza lavoro i confini tradizionali tra occupazioni femminili e maschili iniziano a vacillare.
Nella società fordista, il binomio donna-riproduzione è stato contrapposto a quello uomo-produzione, questa dicotomia è fortemente intrecciata allo stereotipo della forza, della razionalità e della superiorità fisica dell’uomo, e della vocazione delle donne per i ruoli domestici, affettivi, di cura e di ascolto. A partire dagli anni Settanta, tuttavia, si inizia a parlare di «crisi del maschio» in quanto i mutamenti famigliari, sociali e culturali di quel periodo hanno prodotto una profonda ridefinizione del modello ideale di mascolinità dominante, portando alla nascita della c.d. «mascolinità post-moderna». Questa si caratterizza dalla tendenza, da parte degli uomini, a riscoprire i valori della propria maschilità, sfidando i condizionamenti imposti dal modello di virilità unico e rigido. Tale atteggiamento si traduce, ad esempio, nel maggior coinvolgimento degli uomini all’interno della vita famigliare e genitoriale.
La presa di consapevolezza di cui si è appena parlato, ha profonde ripercussioni anche in ambito lavorativo in quanto spinge gli uomini ad inserirsi e a realizzarsi in occupazioni prettamente femminili, come quella di assistente sociale. In generale, gli uomini tendono a preferire occupazioni tradizionalmente assegnate a loro, e rifiutare quelle a maggioranza femminile, poiché entrare in questo tipo di professioni significherebbe dover affrontare stereotipi sociali ancora molto radicati, che si traducono nel vedersi attribuire etichette di omosessualità o di effeminatezza. Inoltre, questo implicherebbe la perdita del prestigio sociale e il proprio status privilegiato in famiglia. Al contrario, quando una professione tipicamente femminile è scelta seguendo le proprie vocazioni, tale mansione, svolta da un uomo, sembra ricevere valore aggiunto.
Un po’ di numeri. In tutti i paesi europei la presenza maschile nelle professioni sociali è minoritaria sia tra gli studenti che tra gli occupati. Questo è particolarmente vero in Italia, dove nel 2014 gli uomini iscritti all’albo professionale di servizio sociale sono circa il 7% del totale (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali). In passato la maggior parte delle scuole che preparavano alla professione di assistente sociale erano riservate alle donne. In Italia, a cavallo degli anni Novanta, i corsi di formazione per assistenti sociali hanno visto mutare il proprio inquadramento da esterno ad interno all’Università. Tale cambiamento, in concomitanza con l’approvazione della legge quadro 328/2000, ha reso possibili maggiore riconoscimento professionale, migliori redditi e possibilità di carriera. Ciò nonostante il numero di assistenti sociali uomini è aumentato in modo molto contenuto. Sembra, dunque, che in Italia l’immagine di assistente sociale al femminile sia ancora molto radicata.
Cosa spinge un uomo a diventare assistente sociale? Vi sono dei pregiudizi? Esiste un genere più adatto alla professione? Da alcuni studi emerge che le motivazioni che spingono un uomo a intraprendere la professione di assistente sociale sono pressoché le stesse che spingono le donne. Le motivazioni strumentali hanno un’importanza marginale rispetto alla realizzazione personale, al voler aiutare gli altri o alle dimensioni etiche:
Mi interessavano gli aspetti umani e la relazione di aiuto con le persone (Massimo, 55 anni)
Spesso le differenze tra uomini e donne nel lavoro sociale non sono da attribuire al genere in sé, ma a predisposizioni caratteriali individuali o a variabili culturali:
Si pensa che una donna sia meglio perché è più brava e perché la professione di assistente sociale è per bravi. In realtà non c’è un genere più adatto, gli uomini che hanno una determinata sensibilità e voglia di ascoltare lo possono fare benissimo (Andrea, 28 anni)
Una maggiore presenza maschile all’interno della professione, e del lavoro sociale in generale, dovrebbe essere incoraggiata innanzitutto per i modelli di ruolo, in quanto donne e uomini contribuiscono in modo differente alla relazione con gli utenti. Spesso, inoltre, si pensa che vi sia una maggiore intesa con gli utenti del proprio stesso genere:
Se c’è una donna che deve essere accudita ti dicono «vai tu che sei donna e sei più sensibile», se c’è un adolescente problematico allora «vai tu che sei uomo e ti puoi far valere di più» (Dario, 55 anni)
Io ho a che fare con ragazzi giovani e forse li capisco meglio di mie colleghe (Andrea, 28 anni)
Questa tendenza porta spesso anche a una divisione di genere più o meno esplicita relativa al tipo di utenza e di servizio presso cui si lavora. Gli uomini tenderebbero, infatti, a cercare occupazione in specifiche aree dei servizi sociali in modo da enfatizzare gli aspetti mascolini del lavoro e ridurre la dissonanza tra la loro identità di genere e la professione svolta:
Molti uomini tendono a lavorare nel settore adulti, gravi emarginazioni e carcere perché lavorare in comunità mamma-bambino o servizi per le violenze è più difficile e bisogna fare un grande lavoro su se stessi (Andrea, 28 anni)
Essendo una professione tradizionalmente femminile, gli uomini assistenti sociali incontrano alcuni pregiudizi, soprattutto da parte di utenti e del gruppo dei pari, che interiorizzano i modelli di genere e di divisione del lavoro tradizionali:
Un giorno si presentò al servizio una signora che eluse totalmente lo sguardo delle colleghe e si rivolse a me come se fossi il responsabile del servizio. La componente di genere incide moltissimo nella percezione dell’utenza […] stupisce sempre quando c’è un approccio più morbido da parte dell’operatore maschio perché ci si aspetta che questa morbidezza appartenga alle donne […] io però non mi sento sminuito come uomo se capita di emozionarmi davanti a un episodio (Dario, 55 anni)
I miei amici sono tutti giornalisti, architetti, avvocati e ogni tanto mi dicono «tu fai il volontario, aiuti i bambini». Mi sento che devo dimostrare loro qualcosa in più, sia perché la professione di assistente sociale è screditata sia perché sono un uomo. Io so che quello che faccio vale mille volte quello che fanno loro con i software, però sai, lì c’è dietro il denaro e io invece sono uno sfigato… (Andrea, 28 anni)
Questi uomini, infine, condividono modelli identitari e culturali innovativi senza sentire sminuita la propria identità maschile per il fatto di svolgere professioni in cui la cura, la sensibilità e il rapporto con le emozioni sono elementi fondamentali:
All’inizio mi sentivo un visionario, ora mi sento come tutti quelli che hanno avuto la fortuna di fare un percorso giusto per loro (Andrea, 28 anni)
In conclusione, nonostante la componente di genere sia importante nella valutazione della presenza di uomini nei servizi sociali, essa non costituisce il fattore di differenziazione principale. È vero che vi sono difficoltà e talvolta pregiudizi, ma è anche vero che il genere non sembra essere ciò che più
conta nella professione. Sono le caratteristiche e le inclinazioni personali come l’empatia, la capacità di ascolto, di relazione e di cura, caratteristiche considerate tradizionalmente come esclusivamente femminili ma che in realtà anche gli uomini possiedono, a fare di un professionista un buon assistente sociale. Ciò che emerge è che la relazione di aiuto con l’utente, scopo ultimo della professione, viene giocata sul momento, sulla base delle proprie capacità e non sulla base del genere di appartenenza. Tutto ciò contribuisce a sdoganare l’idea di assistente sociale esclusivamente al femminile.

5° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DELLA NOSTRA ASSOCIAZIONE

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16 Novembre 2010. Martina posta “Benvenuti”. Il post sigilla la nascita della nostra realtà associativa.

16 Novembre 2015. Luigi si mette davanti al computer e cerca di scrivere un articolo che possa riassumere quanto di bello è stato fatto negli ultimi 5 anni.

In primis si dovrebbero elencare i numeri degli articoli prodotti, dei magazine pubblicati, degli incontri realizzati in università. Facciamo una cosa? Lasciamo perdere per un attimo la matrice quantitativa. Sì ok, abbiamo FATTO tante cose, ve lo assicuriamo. Ci siamo dati da fare, ci abbiamo investito tanto. Siamo stati “validati” da università, Ordine Professionale e varie associazioni di settore. Ma sapete qual è la cosa più incredibile? Che, come direbbe Vasco, siamo ancora qua.

I membri dell’associazione sono cambiati ma IN-FORMAZIONE è rimasta in piedi e ogni anno cerca di raggiungere lo stesso obiettivo: “creare una rete dinamica tra studenti e professionisti”.

Ci proviamo in particolare in due modi: offrendo agli studenti del terzo anno del corso di laurea in Servizio Sociale (Università degli Studi di Milano Bicocca) un laboratorio https://ainformazione.com/eventi dove potersi confrontare con professionisti provenienti dal mondo dei servizi sociali, e organizzando (insieme agli studenti iscritti al laboratorio) un convegno dal nome “Proud 2be Assistente Sociale” https://ainformazione.com/esprimere-il-servizio-sociale/.

Ogni anno il tema del convegno cambia ma il messaggio rimane lo stesso: siamo orgogliosi della nostra professione e vogliamo urlarlo al mondo. Siamo stanchi di nasconderci, siamo stanchi di essere stigmatizzati dai mass media.

Tanti si riempiono la bocca con il sociale, pochi il cuore e la mente (spesso però risulta più interessante chi parla meglio).

Associazione IN-FORMAZIONE è ora composta da studenti e assistenti sociali.

Un gruppo di lavoro, non troppo numeroso ma molto coeso, che ogni giorno si sente e mensilmente si incontra. Un gruppo che chiacchiera il giusto e a testa bassa lavora per promuovere la professione di assistente sociale. Noi ci crediamo.

A risentirci nel 2020!

P.S. sono stati “prodotti”: 29 numeri del magazine, 206 articoli del Blog, 46 eventi in Università.

Luigi Grigis

“Social Work Education in Europe: Towards 2025”: il simposio fra studenti europei di servizio sociale.

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Dal 29 Giugno al 2 Luglio 2015 si è svolto, presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, in collaborazione con il dipartimento di sociologia e ricerca sociale, EASSW (European Association of School of Social Work), AIDOSS (Associazione Italiana Docenti di Servizio Sociale) e PowerUs(Service User Co-production in Social Work Education and Research), un convegno internazionale di servizio sociale dal titolo “Social Work Education in Europe: Towards 2025”.

Il convegno è stato pensato principalmente per studenti e docenti dei corsi universitari europei, ma anche per professionisti assistenti sociali. Nelle diverse giornate si sono tenute lezioni inerenti le maggiori conquiste e i più importanti sviluppi nel campo dell’educazione al servizio sociale, con un focus particolare sulla dimensione europea,ma da una prospettiva globale. Uno degli obiettivi principali a cui si è voluto mirare è stato il creare un network a livello universitario europeo che permettesse la condivisione di esperienze ed idee riguardo al futuro della formazione al servizio sociale. Nella giornata di apertura, è stato organizzato dall’associazione In-formazione, in collaborazione con due docenti appartenenti al personale rispettivamente dell’Università portoghese Coimbra e quella britannica Durham, un simposio informale fra studenti europei. Lo scopo previsto per questo momento di incontro è stato duplice: da un lato la condivisione delle informazioni sui diversi percorsi universitari europei di servizio sociale, e dall’altro l’unione di idee concrete finalizzate alla creazione di un network studentesco internazionale. Attraverso la modalità del lavoro di gruppo è stato lasciato uno spazio agli studenti affinché esprimessero le loro idee in merito ed enunciassero gli obiettivi da loro ritenuti fondamentali. In un momento di brainstorming finale sono stati poi condivisi i risultati ottenuti da ciascun gruppo. Oltre all’esplicitazione dei diversi funzionamenti dei corsi di laurea, tema senz’altro interessante, è emersa soprattutto un’idea generale di quello che gli studenti presenti volessero fosse l’inizio di un network a livello internazionale. Si è pensato, come idea base e sulla quale sviluppare eventuali progetti futuri, alla possibilità della creazione di un sito internet, con relativi forum e pagina Facebook, che desse la possibilità ad ogni studente di iniziare conversazioni sui più diversi argomenti sociali, in modo da favorire un dibattito,un scambio di opinioni a livello europeo (e non solo). La promozione del sito spetterebbe alle singole università nazionali, che avrebbero quindi l’importante compito di fornire ai loro studenti degli input che permettano di informarsi ed agire a livello internazionale. Un altro step fondamentale, da realizzarsi in collaborazione con EASSW, è risultato essere per i partecipanti quello della creazione di un progetto che favorisca l’avvio di stage e tirocini a livello internazionale, in modo che gli studenti possano vedere come funzionano i diversi servizi sociali stranieri, favorendo così una circolazione di saperi, competenze e metodologie. Un ulteriore passo in avanti potrebbe essere compiuto da gruppi rappresentativi di ogni università che, una volta eletto un rappresentante, potrebbero partecipare agli incontri dell’EASSW e quindi contribuire alle discussioni in merito all’insegnamento del servizio sociale con i membri dell’associazione, dando in questo modo sempre più importanza all’opinione degli studenti. Questi, con le loro idee e la loro voglia di fare, sono senz’altro un tassello importante della formazione professionale; tassello che spesso viene ignorato o poco considerato ma che invece potrebbe dare un grande contributo se valorizzato maggiormente. E’ infatti a partire dal “basso”, da quella che è la nascita di un professionista, che è importante agire per migliorare sempre di più il contesto dinamico del lavoro sociale; è impensabile ipotizzare cambiamenti per il futuro senza coinvolgere le generazioni che ne saranno protagoniste. Solamente con una modalità di lavoro aperta, dinamica e che coinvolge ogni attore sociale si può pensare di attuare un vero cambiamento.

Anita Urso

Consiglio bibliografico: “Una bambina” di Torey Hayden

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Torey Hayden ( USA, 21 maggio 1951) è una psicopatologa infantile, insegnante ed esperta in educazione speciale.
Nel corso degli anni T. Hayden ha accumulato molta esperienza e credito nel campo del lavoro con minori difficili a seguito di abusi, disturbi emotivi, psichiatrici e di apprendimento.
Oltre alle sue attività legate all’educazione e alla psicologia, è professore universitario e coordinatrice di unità di ricerca.
Torey Hayden è inoltre conosciuta per il suo lavoro di scrittrice. T. Hayden scrive libri che riportano le storie vere derivanti dalla sua quotidianità, dalla sua esperienza con i bambini difficili; nel 1980, a seguito del suo lavoro, scrive il suo primo e famoso libro “Una Bambina”.
“Una bambina” è nato inizialmente per registrare la relazione d’aiuto che T. Hayden ha vissuto con la piccola Sheila, protagonista del racconto, a cui solo successivamente ha pensato ad una pubblicazione.
“Una bambina” racconta la storia vera di Sheila, 6 anni, affidata temporaneamente alla classe dei “bambini difficili” di Torey in attesa che si liberi un posto all’ospedale psichiatrico di stato. Sheila era considerata ormai da tutti un caso “perso”, senza speranza, la cui unica soluzione rimasta era di limitare i futuri danni che poteva fare a sé stessa e agli altri.
L’evento che ha condannato Sheila all’internamento è accaduto una sera di d’autunno; Sheila lega ad un albero un suo vicino, un bambino di 3 anni e gli da fuoco, provocandoli gravissime ustioni.
Sheila si presenta una bambina molto difficile, affetta da mutismo selettivo, sporca, cerca perennemente di scappare dal centro, bagna continuamente il letto e fa altre piccola sciocchezze. Sheila ha deciso che al mondo non c’è nessuno a cui possa dare o ricevere affetto e nega agli altri la possibilità di instaurare un legame con lei.
Torey si trova davanti una bambina totalmente chiusa in sé, lontana dall’esprimere qualsiasi cosa senta, sfiduciata nei confronti di tutti. Il primo contatto fra le due è realmente molto difficile, Torey ha difficoltà nel creare una relazione e a capire le cause del comportamento di ribellione della bambina. Torey decide che per Sheila non può essere tutto perduto, che vale la pena provarci.
Con pazienza e passione Torey e Sheila instaurano un rapporto difficile, controverso e molto fragile.
Sheila, dopo l’iniziale diffidenza, inizia a rapportarsi con gli altri e a dare fiducia al prossimo, ad aprirsi. Si scopre in questo modo il passato burrascoso di Sheila: la madre l’ha abbandonata portandosi via il fratellino, il padre assente e problematico e una vita di abusi.
Il lavoro di Torey le fa prendere coscienza di sè e fiducia negli altri, capire cosa sia giusto e sbagliato, credere nelle sue potenzialità (per altro molto alte).
Le relazioni sono al centro del libro, attraverso di esse T. Hayden lavora e aiuta i suoi utenti. La storia di “Una bambina” è la storia dei tentativi di T. Hayden per far emergere le capacità di Sheila, nascoste e ignorate da anni di abusi ed è, inoltre, la storia delle difficoltà e della volontà di T. Hayden di non arrendersi di fronte a una bambina considerata ormai “spacciata”.

Leggere “Una bambina” fa provare al lettore una moltitudine di emozioni e domande.
Personalmente credo che la Hayden sia in grado, con la sua narrazione, di portare i lettori dentro la storia, dentro le emozioni che alla vive ogni giorno, dentro le difficoltà del vissuto dei bambini che incontra nel suo lavoro. Difficilmente si trova un libro dallo stesso impatto emotivo, impatto emotivo che aumenta considerando che il narrato è realmente accaduto.

“Una bambina” è attualmente pubblicato in 28 lingue, edito in Italia Corbaccio ed è stato adattato in diverse forme (film, spettacoli).

Dal sito ufficiale di Torey Hayden dove è possibile conoscere i destini dei protagonisti reali dei suoi libri si apprende che Sheila, oggi, ha una vita serena e ha aperto una propria attività.

Torey Hayden ha scritto altri libri basandosi su storie vere a cui ha lavorato, soprattutto nel campo dei minori, da segnalare inoltre: “Una bambina bellissima” e “La figlia della tigre” dove si rittrova una Sheila adolescente.

Barbara Ghidotti

Il coraggio e la forza del sorriso contro la mafia

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Piera Aiello. Moglie di Nicola Atria, figlio di Don Vito Atria, boss di Cosa Nostra.

Ha gli occhi sorridenti e il sorriso stampato sulle labbra di una donna le cui scelte di coraggio ed il destino le hanno cambiato la vita per sempre, ma che allo stesso tempo ha imparato a conviverci continuando a lottare ogni giorno con grande dignità.
Ho incontrato “Piera Aiello”, un nome che le appartiene nel sangue che gli scorre nelle vene ma che per lo Stato non appartiene più a nessuno. Ormai da anni per ragioni di sicurezza gli è stata attribuita una nuova identità perché la mafia non dimentica. Vive e lavora lontano da quel paesino di Sicilia, vive in una citta protetta insieme alla sua famiglia e ai suoi angeli custodi, le guardie della protezione anti mafia. Ma c’è quell’accento siciliano che la frega e le ricorda ogni attimo da dove viene e qual è la sua storia.
Per molti oggi lei è solo la cognata di Rita Atria.
Dice che la sua vita è una vita semplice, una vita da donna ma che allo stesso tempo ha due vite. Una del presente e una del passato che non vuole dimenticare perché è importante ricordare le proprie origini e imparare dalle scelte fatte o subite.

Ha 45 anni, è nata a Partanna un paesino della Sicilia, da una famiglia di modeste possibilità economiche e con grandi valori di lealtà e giustizia.
Moglie di un boss. Diventa vedova, perché il marito rimane vittima della stessa mafia a cui apparteneva, costretta a vestirsi a lutto otto giorni dopo il suo matrimonio obbligato, con una bimba di tre anni, Vita Maria, e tanta rabbia e voglia di giustizia nel cuore.

È proprio allora che decide di lottare e di cambiare tutto.
Decide di denunciare i nomi degli uomini che hanno ucciso il marito sotto ai suoi occhi, ma soprattutto i fatti che ha minuziosamente raccolto per dieci anni in un diario: fatti, omicidi, persone, luoghi.

Grazie all’aiuto del maresciallo Francesco Custode, di servizio a Partanna, si dirigono a Terrasini perché se fossero rimasti nel paese la mafia li avrebbe scoperti e uccisi. Arrivano nella caserma dei Carabinieri a Terrasini e inizialmente Piera ha paura. Ha paura perché non si fida dell’istituzione e ha soprattutto paura che “le spie la vedano e la facciano fuori”. Dopo alcune parole di conforto da parte del maresciallo, Piera si tranquillizza. Entra in un ufficio ed incontra le figure che le faranno da guida per il resto dei suoi giorni come testimone di giustizia e non la faranno sentire sola quando si ritroverà a perdere tutto. Morena Plazzi, procuratore che conosce in obitorio al momento del riconoscimento della salma del marito; Alessandra Camassa procuratore di Marsala e “zio Paolo” (Paolo Borsellino) che con affetto quasi fraterno la incoraggia attraverso l’amore che prova per Vita Maria.

Le chiedono che rapporti aveva con Rita, sua cognata e lei risponde così “Quando ho conosciuto Rita avevo 14 anni e lei 6, siamo cresciuti insieme. La testimonianza di Rita è stata fondamentale, ha parlato degli intrecci tra mafia e politica a Partanna. Della sua scelta di testimoniare sono stata accusata da mia suocera, sostiene che sia stata io a convincerla a fare quella scelta, ma non è andata così. Dopo che io ho deciso di testimoniare ed sono stata trasferita a Roma per primi 40 giorni sono rimasta chiusa in un monolocale, da sola, privata della libertà. Per questo cercavo di dissuadere Rita, per evitare di fare quella vita, ma lei insisteva. Decide di testimoniare una notte, quando subisce un attentato, alcuni uomini bussano alla porta della casa dove vive con la madre e lei capisce che quelle persone erano lì per ucciderla. L’indomani mattina va da mio padre, che con una fiat 126 la accompagna in procura a Sciacca. Rita era una ragazza cresciuta in una famiglia mafiosa, aveva 17 anni quando si è uccisa. La sue era solo un’età anagrafica, ragionava e pensava da donna ultraquarantenne, più di quanto lo fossi io che avevo sette anni più di lei. Decide di uccidersi dopo la morte di Borsellino perché perde il terzo punto di riferimento nella sua vita: il padre, il fratello e poi infine “zio Paolo”.

Infine le chiedono come poter combattere la mafia nella vita di ogni giorno e nelle scelte della vita.
Alla domanda risponde: “ Ho deciso di portare in giro per le scuole la mia vita e la mia esperienza per portare avanti la lotta e la voglia di giustizia che mi ha trasmesso Rita. Amo dialogare con i ragazzi e molti dicono che i giovani sono il futuro: beh io credo siano il presente e poi il futuro e con loro decido di combattere la mafia. Mi chiedete come si fa a combatterla senza fare scelte drastiche come ho fatto io? Allora vi dico che l’unico modo è quello di PENSARE CON LA VOSTRA TESTA, NON SMETTERE MAI DI SPERARE MA SOPRATTUTTO DI PRENDERVI CURA DEGLI ALTRI SENZA VOLTARE MAI LE SPALLE PERCHE’ NELLA SOLITUDINE LE PERSONE SCELGONO LA VIA PIU’ FACILE: LA MAFIA. Combattete l’ignoranza perché la mafia si nutre e vive su essa. Solo agendo in questo modo la mafia, in ogni parte del mondo, non potrà annidarsi nel quotidiano.”

Greta Vitale

Voti ogni volta che vai a fare la spesa

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Coca-Cola, Garnier, Nestlè, Nike, Timberland etc: cosa c’è dietro le grandi marche?

Da definizione, per consumo critico si intende l’organizzazione delle proprie abitudini di acquisto e consumo accordando le proprie preferenze ai prodotti che posseggono determinati requisiti di qualità differenti da quelli comunemente riconosciuti dal consumatore medio.

Per il consumatore critico, criteri per la scelta di un prodotto possono essere ad esempio la sostenibilità ambientale del processo produttivo e di trasporto; in quest’ultimo caso, la cosiddetta filosofia Km zero consiste nell’acquisto di prodotti alimentari locali. Altri importanti principi riguardano invece l’etica del trattamento accordato ai lavoratori ma anche, nei casi dell’industria cosmetica e alimentare, il rispetto nei confronti della vita degli animali, spesso violato attraverso sperimentazioni o pratiche barbariche come nel caso del foie gras.

Riguardo al trattamento dei lavoratori, un grosso problema è rappresentato dalla delocalizzazione della manodopera in paesi le cui legislazioni di tutela dei lavoratori sono piuttosto carenti. Per esempio, Federico Rampini nel suo libro L’impero di Cindia ci parla del processo produttivo dei giocattoli Disney: “Libri di Topolino, album colorati con le figure del pesciolino Nemo sono le prove a carico di un impressionante dossier sugli abusi dei diritti umani nelle fabbriche cinesi. Dietro gadget e giocattoli che vengono venduti dalla Disney ai bambini del mondo intero, ci sono le vittime di una tragica serie di incidenti in fabbrica: dita e mani amputate, morti sul lavoro”. Ma la Disney non è certo un caso isolato: infatti, la stragrande maggioranza delle multinazionali più conosciute non agisce diversamente.

Per contrastare tali problematiche è fondamentale che ogni consumatore prenda coscienza del fatto che il proprio potere d’acquisto è un potente strumento per influenzare il comportamento delle industrie: comprando secondo determinati principi, il consumatore può infatti premiare le aziende più meritevoli da un punto di vista etico.

Acquistare e consumare in modo critico non è chiaramente un dovere, resta pur sempre una scelta per la quale, inoltre, il consumatore necessita di moltissime informazioni su prodotti, metodi di fabbricazione e filosofia di produzione delle grandi marche, e la ricerca di informazioni richiede interesse e tempo. È certo, però, che l’interessamento di tutte le persone e il conseguente acquisto consapevole potrebbe fare la differenza in molti campi ancora bisognosi dell’attenzione delle persone, come appunto i diritti dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente.

A tal proposito può essere utile ricordare la presenza dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), organizzati spontaneamente, che partono da un approccio critico al consumo e che vogliono applicare principi, quali l’equità e la solidarietà ai propri acquisti (principalmente prodotti alimentari o di largo consumo) e che nascono da una riflessione sulla necessità di un cambiamento del nostro stile di vita. Come tutte le esperienze di consumo critico, anche questa vuole immettere una «domanda di eticità» nel mercato, per indirizzarlo verso un’economia che metta al centro le persone e le relazioni.

Manuela Oreto

Buone Vacanze!!!

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. ..e con agosto arriva anche per noi il momento delle vacanze!

L’associazione IN-Formazione vi saluta per una breve pausa estiva e vi da appuntamento a settembre/ottobre per ricominciare insieme le nostre attività: creazione del web-magazine, riunioni tra i membri e partecipazione agli incontri che si terranno presso l’Università Bicocca all’interni del laboratorio da noi gestito “Comunicare il servizio sociale”https://ainformazione.com/eventi/  (iscrizioni aperte per gli studenti del 3 anno del CdL in servizio sociale Milano Bicocca, da settembre sul sito di facoltà, sezione laboratori)

Vi ricordiamo che siamo sempre aperti ad accogliere nuovi membri e persone interessate a collaborare con noi!

COMPRENDERE LA DIVERSITA’

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Non mi rendevo conto della diversità che può esistere tra le culture e della sua importanza fino a quando, durante il mio tirocinio, mi ci sono “scontrata”.
In primis, l’assistente sociale che mi ha fatto da supervisore mi ha portato ad apprezzare queste diversità mostrandomi i suoi viaggi, nei quali ha vissuto, nel vero senso della parola, le diverse culture con passione e curiosità. Inoltre, durante il mio tirocinio presso un consultorio, mi sono trovata di fronte a diversità che mai avrei pensato potessero essere così profonde. Ho avuto modo di parlare con donne e ragazze appartenenti a diverse culture. Per esempio una ragazza ebrea di 17 anni si è recata al servizio per portare un problema relativo alla famiglia che l’aveva costretta a frequentare scuole rigorosamente ebraiche. La ragazza si è opposta perchè non si riconosceva in quella “nicchia”, convincendo la madre (che è colei che decide, il padre non ha molta voce in capitolo) a frequentare una scuola pubblica. Il compromesso fu però quello di frequentare parallelamente una comunità ebraica. Sono rimasta molto colpita dalla maturità di questa ragazza che, oltre al problema portato, ci ha fieramente mostrato le sue origine e tradizioni. Dai suoi racconti ho realizzato che il comportamento della madre, che mi è venuto spontaneo “additare”, è invece da considerare all’interno di un contesto preciso e in relazione alla preoccupazione che la figlia possa perdere le proprie origini.
Dal basso dei miei 21 anni mi si è aperta una realtà: si parla tanto di culture, ma senza rendersi conto o preoccuparsi di conoscerle. L’assistente sociale si deve giornalmente confrontare con queste ultime e questo vuol dire essere capaci di immedesimarsi, capire e accettare modi diversi di vivere, pensare e approcciarsi. Avere una visione troppo ristretta porterebbe a valutare le situazioni in maniera troppo “soggettiva”, non tenendo conto della cultura di appartenenza e di cosa ciò comporta. Penso che questa sia una delle cose più importanti che ho appreso: conoscere le culture per accettarle e poter dare a chi viene a chiedercelo un aiuto reale, che prescinda dalle nostre credenze e che abbracci un’idea di cultura diversa dalla nostra, ma non per questo per forza sbagliata…solo diversa.

Barbara Scotti

Follia

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E’ un libro la cui storia è ambientata all’interno di un manicomio criminale, luogo in cui si incontrano Edgard Stark, uno sculture accusato di aver ucciso la moglie violentemente per un attacco di gelosia, e Stella, moglie affascinante dello psichiatra Max Raphael e madre del piccolo Charlie, incuriosita da quest’uomo capace di vivere i sentimenti con un coinvolgimento folle e tormentato.
Tra i due nasce un legame passionale, consumato velocemente e di nascosto. Quando però l’artista decide di scappare dal manicomio, Stella abbandona il marito e il figlio per iniziare una vita con Edgard all’insegna della passione.
La convivenza tra i due procede bene fino a quando Edgard non inizia a manifestare gelosia e aggressività nei confronti di Stella e si tuffa nella creazione artistica sperando di dominare i propri impulsi. Ritrae Stella, ne modella la testa nel tentativo di riuscire a vederla come lui la vorrebbe; è un processo sofferto, contrastato e per Edgar è anche l’unico modo per frenare la follia omicida che sta per prendere il soppravvento.
Stella, dopo aver spiato l’opera artistica che stava realizzando Edgard, è costretta a fuggire, viene rintracciata dalla polizia e condotta a casa. Nonostante tutto, in fondo al suo cuore, spera sempre di rivedere Edgar, ma per il momento non le resta che aggrapparsi alla sua famiglia e in particolare al suo bambino, Charlie, che ama moltissimo ma che non riesce a distoglierla dalla sua tristezza.
Il dottor Max decide di trasferirsi in Galles con la sua famiglia, dove ha trovato un lavoro di ripiego come psichiatra in un piccolo ospedale di provincia.
Stella è in preda ad una profonda crisi depressiva e Max non fa che nutrire risentimento e astio nei suoi confronti.
In Galles si verifica l’evento più drammatico, doloroso ed inaspettato del romanzo: la morte di Charlie. Stella vi assiste in uno stato di trance, potrebbe salvare Charlie ma non è in sé, non interviene e questo rende l’evento ancora più terribile.
Da questo momento in avanti non c’è più possibilità di ritorno, ma allo stesso tempo ci illudiamo che le cose si aggiustino in qualche modo.
A seguito della morte del figlio, Max si richiude in se stesso e il suo interesse per portare fuori dalla depressione la moglie svaniscono.
Stella ritorna al manicomio criminale in cui trova un vecchio collega del marito, Peter Cleave, con il quale inizierà un percorso di cura.
Il punto di vista di Peter diviene qui evidente insieme ai suoi secondi fini: occuparsi di Edgar, che è stato arrestato e ricondotto in manicomio, e di Stella ed esercitare nei loro confronti quel potere totalizzante che appartiene all’analista quando il paziente non ha altro cui aggrapparsi.
Eppure qualcosa ci avverte che i conti non tornano e che l’inevitabile, scandalosa e beffarda verità sarà molto diversa da quella che eravamo stati costretti ad immaginare.

Elisa Diaferia