“Non occorre guardare per vedere lontano”

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Anni fa andai con un’amica in via Vivaio all’Istituto dei ciechi di Milano, per svolgere il percorso chiamato “Dialogo nel buio”. Rimasi profondamente colpita da quell’esperienza diversa, difficilmente replicabile in altri contesti per chi è vedente.

Il percorso inizia una volta formati dei gruppetti da 6-8 persone; ad ognuno dei componenti viene consegnato un bastone. Dopo di che ci si addentra nella struttura dove, inizialmente, vi è ancora luce, ma, a mano a mano che si percorre il corridoio, la luce inizia ad affievolirsi sempre di più fino a che non si arriva al buio completo.
Ricordo che una volta trovatami nel nero più totale, la sensazione che ho provato è stata quella di paura mista a smarrimento, ma tutti siamo stati subito rassicurati dalla voce della nostra guida che si è presentata e ci ha chiesto di presentarci a nostra volta.
La guida ci ha spiegato che il percorso si sarebbe svolto ovviamente tutto al buio e che avremmo attraversato varie stanze che rappresentavano luoghi differenti; per cui, in ogni stanza, avremmo incontrato suoni, odori, materiali differenti che ci avrebbero aiutato a capire in quale posto ci trovavamo. Non potendoci affidare alla vista dovevamo lasciarci guidare solo dagli altri sensi con l’aiuto del bastone.
Non ricordo più in quante stanze siamo passati, rammento però di essere stata su una barchetta, quindi di aver sentito l’acqua e l’ondeggiare tipico di un’imbarcazione, e di esser rimasta piacevolmente sorpresa nell’aver riconosciuto facilmente il legno della struttura della barca una volta salita all’interno di essa.
L’episodio che però mi ha colpito estremamente è stato quando, ad un certo punto del percorso, mi ero allontanata un po’dal gruppo e la guida mi disse: “Veronica non andare troppo avanti, aspetta gli altri”. Risposi con un “Ok” che mi venne spontaneo; ma quando pensai che una persona non vedente, che per di più non mi conosceva se non da qualche minuto, mi aveva riconosciuta fra tutti gli altri componenti del gruppo, rimasi sbalordita.
Solo in quel momento ho realmente capito quanto queste persone riescano a dare importanza a quei particolari e a quelle piccolezze (che per loro non lo sono affatto), per comprendere la realtà che li circonda. Come affinare l’udito riconoscendo il modo di camminare delle persone, proprio come la guida aveva fatto con me.
E’ incredibile come riescano ad utilizzare al massimo tutti quei sensi che noi trascuriamo, o che comunque utilizziamo minimamente perché li consideriamo secondari; loro riescono a completare la visione del mondo con il tatto, seguendo gli angoli di oggetto che diventa un libro; con l’olfatto, riconoscendo un odore che arriva dalla strada; con l’udito, cogliendo quelle sfumature nei toni delle voci delle persone che li rendono unici; con il gusto, assaporando un buon gelato che si scoglie in bocca.
Consiglio a tutti di provare questa esperienza unica e molto particolare poiché “ti fa vedere” il mondo in un altro modo. In quell’ora di percorso cogli delle accezioni e dei significati che nella vita di tutti giorni non noti nemmeno, mentre lì dentro ogni dettaglio diventa importante e ogni particolare ti aiuta a completare il tuo puzzle.
Non metto in dubbio che la vita di una persona non vedente sia difficoltosa per molti aspetti, ma, sentendo la guida parlare, non ho colto rassegnazione nella sua voce o tristezza; semplicemente raccontava quante altre cose si possono apprezzare quando non si ha la possibilità di vedere con gli occhi, ma lo si può fare con tutto il resto del corpo.

Veronica Sammarco

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La via dell’artista – Come ascoltare e far crescere l’artista che è in noi.

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Autrice: Julia Cameron.

Quand’è stata l’ultima volta che avete avuto l’impulso di disegnare? Che siete entrati in un museo? Che avete scritto i vostri pensieri come vi venivano in mente? Che avete danzato? Forse non riuscite nemmeno a ricordarlo … Tutti noi abbiamo sognato di dipingere, ballare, scrivere, comporre musica, ma poi, spesso, abbiamo rinunciato a quel sogno, convinti di non avere sufficiente talento per l’arte.
Ci siamo giustificati con gli impegni della casa o del lavoro, oppure nascosti dietro il timore, la vergogna, i sensi di colpa. Nessuno, infatti, ci ha mai spiegato come dare forma a quelle passioni, a quegli slanci creativi che spesso proviamo e che ammiriamo in certi personaggi della cultura e dello spettacolo. La via dell’artista comincia proprio dall’idea che l’espressione artistica non sia qualcosa di artificiale o d’innato, bensì la naturale direzione della vita di ognuno. Una direzione che va scoperta al di là delle paure, seguita amorevolmente, abbracciata con tutti noi stessi. Non c’è bisogno di lunghi tirocini né di sofferenze inaudite per “creare”: basta capire come mettersi in ascolto di se stessi. Nel percorso tracciato da Julia Cameron imparerete proprio come sia possibile diventare artisti, superando quei blocchi psicologici e pratici che, come una fitta nebbia, v’impediscono di scorgere le vostre potenzialità. E’ un percorso che si articola in dodici settimane, durante le quali farete degli esercizi semplicissimi, che però daranno risultati sorprendenti. Non importa quali siano le vostre abilità, le doti che credete ( o non credete) di possedere: la via dell’artista è aperta. Se siete pronti a cambiare- in meglio- la vostra vita, allora questo è il libro che fa per voi.

Daniela Raccagni.

L’ARTE COME STRUMENTO DI CURA

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Interrogandomi sull’argomento da trattare per l’articolo assegnatomi, mi sono messa a scarabocchiare su un foglio bianco, passione che coltivo da diversi anni.
Il disegno ha sempre avuto un effetto rilassante su di me perché, mentre disegno, tutti i problemi mi appaiono più semplici, lineari, chiari e si aprono ipotesi che non avevo considerato; così mi sono detta: “perché non parlare proprio di questo?”.
Sempre più spesso negli ultimi anni sentiamo le persone esprimersi riguardo l’effetto benefico dell’arte sui disagi psico-sociali ed emotivi; infatti è in aumento il ricorso all’arte terapia.
L’arte terapia promuove la salute psicofisica della persona e tende ad incrementare le sue risorse creative, relazionali, affettive ed espressive; non è necessario essere in possesso di alcuna abilità artistica per rivolgersi all’arte terapeuta, dato che, questa pratica, è adatta a persone di qualsiasi età: mentre nei bambini e negli adolescenti può favorire la crescita sul piano emotivo-relazionale, negli adulti può promuovere la salute psicofisica e, nella terza età, può essere utile nell’elaborazione di un lutto, una separazione o un qualsivoglia evento critico nella vita della persona.
Attraverso l’uso di materiali artistici e del processo creativo, l’arte terapeuta aiuta la persona ad esprimere e a rielaborare i propri vissuti. È una pratica che mira all’acquisizione di strumenti indirizzati al cambiamento e alla crescita personale.
In Italia esistono diversi training formativi che fanno riferimento a vari modelli teorici e che prevedono formazioni biennali, triennali, master e workshop; la scuola di Art Therapy italiana fa riferimento all’approccio psicodinamico avviato negli anni Quaranta dalla psicanalista Margaret Naumburg, che si è sviluppato e arricchito nel tempo grazie al contributo di vari autori e, in particolare, del newyorkese Arthur Robbins, arte terapeuta del Pratt Institute di New York.
L’A.P.I.Ar.T (Associazione Professionale Italiana Arte Terapeuti) definisce l’arte terapeuta come una figura che svolge la propria attività in ambito socio-educativo e sanitario e che, tra le caratteristiche necessarie, deve conoscere le principali implicazioni psicologiche rispetto alla dimensione creativa e all’uso delle diverse modalità; deve altresì conoscere le principali teorie dello sviluppo dell’individuo, avere un’adeguata formazione psicologica e, ovviamente, essere pratico di diverse tecniche espressive, visive, plastiche e pittoriche.
Concludo dicendo che l’arte terapia, attraverso specifiche tecniche nell’uso di materiali pittorici e scultorei, vuole sviluppare il potenziale creativo presente in ogni persona e costituisce una risorsa per la gestione di affetti, emozioni e relazioni; pertanto, sono sempre più frequenti collaborazioni multidisciplinari tra arte terapeuti ed altre figure professionali, quali: insegnanti, psicoterapeuti, psicologi, psichiatri, neurologi, tecnici della riabilitazione, infermieri e psicopedagogisti.

Samantha Maggioni

“AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA”

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Intercultura è una ONLUS il cui intento è costruire il dialogo interculturale attraverso gli scambi scolastici. L’Organizzazione ogni anno manda circa 1800 ragazzi delle scuole secondarie a vivere e studiare all’estero ed accoglie nel nostro paese un migliaio di giovani di ogni nazione, che trascorrono un periodo della loro vita nelle nostre famiglie e nelle nostre scuole. I volontari di Intercultura cercano, attraverso il programma di scambio, di promuovere il dialogo interculturale.
Al quarto anno di liceo ho avuto la fortuna di conoscere Clara, una ragazza metà americana e metà spagnola, che vive vicino a New York e che per un anno ha studiato nella mia classe. La sua presenza ha portato una ventata di aria fresca e ci ha letteralmente travolti. Farle conoscere Milano e, per quanto possibile, l’Italia, ci ha permesso di guardare la città e il nostro Paese, che viviamo sempre in modo distratto, da un’altra prospettiva.
Lei, a sua volta, tramite foto e racconti, ci ha “introdotti”, in un mondo e in una mentalità che a noi appaiono così lontani; Clara, ci ha aiutati a guardare con altri occhi una realtà diversa.
Deve essere davvero un’esperienza intensa quella di ospitare nella propria casa, un giovane di un altro Paese. Intercultura offre questa possibilità, che permette, da un lato di conoscere le tradizioni, la musica, le storie di un’altra cultura, e dall’altro di “convivere” con stili di vita e mentalità diversi dalla propria.
Il confronto permetterà di guardare con nuovi occhi ciò che prima poteva apparire come diverso e sbagliato. Aprire la propria casa al mondo, quindi, è l’esperienza che Intercultura offre.
I volontari accompagnano le famiglie che decidono di intraprendere questo viaggio in tutte le fasi del programma, che comprendono la preparazione prima dell’arrivo del giovane, l’inserimento di questo nella famiglia, a scuola, nella comunità locale e sono sempre disponibili per qualsiasi problema o dubbio durante tutta la durata dell’esperienza.
Per i giovani è la possibilità di avere un nuovo fratello e per i genitori di accogliere un altro figlio e di sperimentarsi nel proprio ruolo. Si creano relazioni e affetti che non si esauriscono con il termine dell’esperienza ma che, anzi, aprono alla possibilità di nuovi incontri, nuove esperienze, nuove conoscenze.
Come dice il motto di Intercultura “sono incontri che cambiano il mondo”.

Elisa Mammarella

Donne senza più voce né respiro, tornano in “vita” con lo spettacolo teatrale “Ferite a morte” –

Il teatro è gremito di persone, ma in quel momento, quando il sipario si apre, le luci si spengono e parte la musica, voglio solo chiudere gli occhi e sentire.
La scenografia è spoglia e quindi non mi perdo elementi essenziali alla comprensione.
Quattro attrici che magistralmente hanno interpretato storie di donne colpevoli di essere donne.
E’ la volta di una donna semplice, poi della donna manager ed ancora di una donna dell’Italia meridionale e dell’Iran.
Le loro vite sono quelle di tante altre donne, non hanno nulla di speciale, hanno solo un epilogo tremendo.
Una morte che, però, porta alla salvezza ed alla liberazione da quella dannazione.
Una costante nelle storie di vita di queste donne è il cercare una scusa ed una colpa in loro stesse, l’essere stata “troppo brava”, non “essersi accorta di”, il “tradimento” od un “amore proibito”.
Una frase riecheggia nel teatro: «me lo sono meritata!»
Meritare di morire? Chi è il giudice che è autorizzato a condannare una donna a morire per mano del proprio compagno, definito anche “padrone”?
Qual è il confine che, a questo punto, la donna non può superare, ma l’uomo sì?

Quando si parla di violenza è bene non soffermarsi mai solo ed esclusivamente sulla violenza fisica, ma anche quella psicologica e verbale. Tutte queste tipologie di violenza inficiano il rapporto di coppia e di certo non fanno parte di quel sentimento chiamato “amore”.
Un uomo non può arrogarsi il diritto di commettere un qualsiasi atto di violenza in quanto uomo; così anche la donna. Un atto di violenza, sotto qualsiasi forma, deve essere condannato, fosse anche lo schiaffo tirato da una donna durante un litigio e, come atto non va giustificato. Va contestualizzato, analizzato e compreso, mai ripetuto.
E’ necessario usare una misura unica per condannare la violenza. Non fare distinzione di genere, non aiuta ad arrivare alla risoluzione del problema.

Le donne di “Ferite a morte” hanno subito, hanno pianto, sofferto ed hanno cercato di ribellarsi,ma questo non è servito, perché in questi casi, sì, che l’essere donna ha giocato a sfavore. E la ribellione, prima della fine, si è trasformata in passività portando la donna ad essere una cosa. Un oggetto inanimato, senz’anima, che non può neanche più morire, perché ha perso la sua cosa più preziosa.
Un’ora e mezza di strazio e commozione sebbene ci fosse spazio anche per la risata pacata (e sensata), ma una frase resta nel cuore: «segui la vita come una spiga al vento!». Mai venire meno a se stessi, mai rinunciare a quello che siamo.
Mai giustificare un atto di violenza e denunciare.
Denunciare sempre, avere il coraggio di uscire da una situazione che – secondo i dati e le esperienze – porta ad un finale infausto.
Ci sono servizi e leggi apposta per poter provare ad uscire da una spirale involutiva, chiedere aiuto e non nascondere il livido dietro gli occhiali da sole, perché, distrattamente «sono caduta!».
L’elenco di femminicidi commessi nell’ultimo anno (128 a novembre 2013- Fonte: Repubblica.it) è davvero troppo lungo, donne di tutte le età uccise per i motivi più disparati e, talvolta, il colpevole è ancora a piede libero.
Quanto siamo disposti ad accettare ancora?

Chiara Biraghi
Sito web dello spettacolo: http://www.feriteamorte.it/

Il nuovo razzismo

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Vorrei richiamare l’attenzione su un fenomeno di cui oggi se ne parla davvero molto poco, probabilmente perché si è radicato tra la gente, tanto da essere considerato “normale” e giustificabile, ma che non è assolutamente scomparso, anzi, si è trasformato e rafforzato nella sua portata. Mi riferisco al RAZZISMO.
Oggi, il concetto di “razzismo”, non poggia più tanto su una matrice biologica, che giustifica l’esistenza di “razze umane” geneticamente superiori ad altre razze, quanto più su una matrice politica e ideologica: il razzismo diventa un prodotto culturale, un atteggiamento mentale che si manifesta nell’epoca moderna spesso in modo tragico, divenendo fonte di guerre e di conflitti.
Esso è il rifiuto totale di culture diverse dalla propria, rifiuto che si manifesta attraverso un’esplicita ostilità; si è convinti a tutti i costi della verità della propria concezione del mondo e si è sicuri che la propria visione della realtà sia l’unica accettabile.
Nel Mondo vi sono più di 900 milioni di persone discriminate; il razzismo è ormai diventato una realtà concreta, basti sfogliare i giornali, o accendere la tv, per accorgersi che questo fenomeno è ormai ovunque.
La manifestazione più evidente di questo fenomeno la ritroviamo nel rifiuto dell’immigrazione di altri gruppi all’interno delle società capitalistiche. Spesso, i lavoratori emigrati vengono fortemente sfruttati e diventano vittime di atteggiamenti xenofobi. Si pensi poi anche a quando i telegiornali puntano i riflettori su fatti di cronaca che vedono molto spesso protagonisti proprio gli immigrati; è vero che queste persone sono spesso coinvolte in fatti criminosi, ma non bisogna commettere l’errore di identificare un intero popolo come “criminale” e per questo odiarlo.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che forme di razzismo sono dappertutto: esso è sempre presente e non cessa di creare ostilità e conflitti, non solo tra nazioni di diverse culture, ma anche all’interno di gruppi che condividono la stessa cultura.
Vi sono paesi in cui le persecuzioni religiose hanno raggiunto livelli di violenza inimmaginabili, soprattutto nel Medio Oriente e in Iraq. In questi territori i cristiani subiscono violenze e atroci torture.
Essere cristiano in Medio Oriente, per gli islamisti, non significa tanto professare una religione considerata minoritaria e diversa da quella ufficiale, quanto essere percepiti come un continuum del cristianesimo occidentale, la rappresentazione in chiave religiosa di un Occidente peccatore.
Vi sono poi anche i casi estremi, quelli di popolazioni che vengono ancora oggi chiamate “primitive”, come, ad esempio, le popolazioni indigene, che sono state completamente emarginate e relegate nelle parti più inospitali dei loro territori. Molti negano l’esistenza di queste persone, deprivate di tutti i loro diritti.
Il dato preoccupante è che, ad oggi, sono in pochi a chiedersi come mai tutto questo accada, come se si trattassero di fatti distanti da noi, questioni che non ci interessano e non ci toccano.
In un mondo in cui vengono ogni giorno superate molte difficoltà e raggiunti sempre nuovi traguardi, non si riesce ancora a raggiungere quello più importante, quello di un’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Per l’ONU, contrastare il fenomeno del razzismo è diventata una delle priorità; a questo proposito si sono stabiliti degli standard internazionali per prevenire ed eliminare la discriminazione.
Tuttavia il percorso è ancora lungo, perché ancora molte sono le difficoltà da superare. Si è ancora lontani dall’eliminare queste forme di razzismo, ma è importante prendere coscienza che esista un problema così grave.
È perciò importante sensibilizzare le persone riguardo questo fenomeno sempre più in crescita affinché non accadano più questi errori; deve nascere un rispetto delle diversità, attraverso un’intensa campagna di informazione, che aiuti a conoscere e a riflettere sul rapporto tra noi e gli altri, per imparare un po’ tutti a vivere nel rispetto dell’altro ad “abitare” in un mondo migliore.
Un cambiamento importante deve essere attivato anche dai governi delle varie nazioni. Serve un mutamento drastico, una radicale trasformazione che porti a riconsiderare l’importanza di tutti gli esseri umani. È una sfida davvero molto ardua, ma non del tutto impossibile.

Federica Tripputi

“ANCHE SE GIULIA NON È BELLA”

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Che cosa suscita e scatena l’arrivo in famiglia di un bambino affetto da disabilità?
Il libro “Giulia non è bella” di M. Rapaccioli e E. Giorgio indaga questo tema adottando un punto di vista spesso trascurato: quello dei fratelli e delle sorelle colpiti indirettamente dalla disabilità.
Alessandra è una bambina di sette anni dolce, intelligente e testarda, con un grande desiderio: poter donare un po’ del suo tempo e del suo amore ad un fratellino o ad una sorellina, con cui condividere giochi, scherzi, litigi e dispetti. Dopo una lunga attesa finalmente arriva Giulia, che però mostra subito i segni della sua diversità: nella danza dei cromosomi infatti non è andato tutto alla perfezione. I suoi occhi sono piccoli e a mandorla, le sue mani sono tozze, con le dita a salsicciotto, e le sue condizioni di salute non sono delle migliori. Nessuno si aspettava che Giulia nascesse così, ma presto tutta la famiglia trova la forza e il coraggio per mostrarla al mondo. Ale aiuta la sorellina a crescere, la sostiene nelle difficoltà, le insegna le cose più difficili e Giulia ricambierà con lo stesso amore nel momento del bisogno. Giulia non è bella, ma i suoi occhi sono pieni di stelle e sorridono sempre.
Sono dunque i timori, le speranze, gli interrogativi e le delusioni di Alessandra a trovare spazio tra queste pagine, che raccontano come un vero e proprio diario il prima e il dopo la nascita di Giulia, riprendendo ad altezza di bambino i cambiamenti repentini e duraturi che la notizia e la presenza dell’handicap portano dentro le mura di casa.

Alice Ghidoni

LA VERITÀ È CHE…

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La verità è che gli anziani non vogliono stare soli.

La verità è che gli anziani non vogliono stare chiusi in casa davanti alla tv.

La verità è che gli anziani vogliono uscire.

La verità è che gli anziani vogliono parlare.

La verità è che gli anziani, piuttosto che niente, passano le giornate in un centro commerciale per sentire rumore, chiacchierare, vedere movimento. Stanno seduti ad un tavolino e si guardano intorno, smarriti, in attesa di qualcosa. Fissano il cellulare sperando che qualcuno li chiami. E quando succede, ringraziano all’infinito, con il cuore in mano. E soffrono quando la conversazione finisce.

Forse non hanno una famiglia, forse nessuno può trascorrere del tempo con loro, forse non sanno che ci sono dei luoghi in cui trovare persone come loro con cui scambiare due parole. Forse.

La verità è che non si promuovono abbastanza iniziative che li possano fare stare bene, o per lo meno meglio, che li coinvolgano in attività che li facciano sentire vivi, parte di qualcosa.

La verità è che “chi deve” sottovaluta l’inadeguatezza dei servizi offerti.

La verità è che non si può caricare tutto il peso sul privato sociale.

La verità è che noi, gioventù d’oggi, dimentichiamo che saremo gli anziani di domani.

La verità è che io non vorrò stare sola!

Roberta Fina

Emergenza abitativa e situazione condominiale

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Tra le problematiche che sta vivendo il popolo italiano, non si può non parlare dell’emergenza abitativa. È del 31 Maggio 2013 un comunicato stampa del Sindacato Inquilini Case e Territori nel quale si parla di ben 220mila sfratti in Italia. Il Sicet ha elaborato i dati parziali relativi al 2012 sugli sfratti resi noti dal Ministero dell’Interno. Si parla di 70mila provvedimenti di convalida, legati per il 95% a morosità incolpevole (impossibilità di pagar l’affitto perché si è perso il lavoro). Sono state 121mila le richieste di esecuzione e oltre 28mila gli sfratti eseguiti. Il dato è in aumento del 6% rispetto all’anno precedente.
Ed è in questo quadro che si respira aria di novità. Martedì 28 Giugno 2013 è entrata in vigore la legge n. 220 del 2012 di riforma del condominio con molti cambiamenti per la maggior parte degli italiani che vive in questa tipologia abitativa. Le principali novità riguardano le modifiche del Codice Civile, agli articoli riguardanti i condomini. Il codice risale al 1942 quando i condomini erano pochissimi. È quindi importante adeguare la norma alla nuova situazione costruttiva. Alcune sono le novità in rilievo. Per citarne qualcuna: è ora necessario nominare l’amministrazione quando i condomini sono più di otto (prima il limite era di quattro). L’amministratore, per ricoprire tale ruolo, deve godere dei diritti civili, non deve essere stato condannato per reati contro il patrimonio e non deve essere stato protestato; deve avere la licenza superiore e aver svolto formazione professionale (questi ultimi due requisiti non sono necessari se l’amministratore è uno dei condomini o se ha già svolto in precedenza l’attività); non può più ricevere deleghe per le assemblee. È ora possibile chiedere all’amministratore una polizza assicurativa per la sua attività. Salvo possibilità di revoca, rimane in carica per due anni. Le entrate e le uscite dovranno transitare sul conto corrente del condominio. Per chi non paga le spese, l’amministratore dovrà agire per il recupero entro sei mesi dall’approvazione del bilancio. I creditori dovranno agire prima sui morosi (l’amministratore potrà indicarli). Vi saranno inoltre delle sanzioni per i condomini che non rispettano il regolamento. Per le spese di scale ed ascensori viene fissato che dovranno essere suddivise per metà sui millesimi e per metà sulla base del piano. Potrà essere attivato un sito web in cui trovare tutti i documenti e i conti del condominio. Gli animali domestici potranno vivere in casa (senza paura che il regolamento lo vieti). In caso di controversie condominiali non è più obbligatorio il tentativo di conciliazione. Queste sono solo alcune delle novità contenute nella legge n. 220.
A mio parere è importante tenere presente che molte leggi, provvedimenti e disposizioni risalgono ad anni passati. Nel XXI secolo le cose in molti ambiti sono cambiate e di conseguenza molte norme ora risultano inappropriate. Spero quindi che anche per altre questioni ci si possa muovere in questa direzione attualizzando le disposizioni normative.

Eleonora Rubino

Genitori del cuore

 

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Essere genitori non è facile, non esiste una scuola che te lo insegni.
Ogni giorno si impara il mestiere, mentre si vive, mentre si insegna a vivere ai propri figli…e si sbaglia anche.
E’ difficile adempiere a questo compito, è difficile esser duri mentre il cuore si intenerisce, è difficile poter educare un figlio in modo perfetto perché un metodo impeccabile ed esemplare non c’è. E’ difficile ma è tanto facile se ci si lascia guidare dall’amore: solo così le immense fatiche saranno ricompensate!
Quando si parla di famiglia si pensa all’amore, all’unità, alla complicità, a sorrisi, alla confidenza, alla felicità, dolcezza e bontà. Famiglie che possono essere numerose o meno, create da genitori sposati, conviventi o fidanzati. Famiglie con figli, maschi o femmine, grandi o piccoli nati da genitori naturali o educati, amati e cresciuti da genitori adottivi.

Mi chiamo Gloria e sono una ragazza di ventun’ anni che frequenta l’Università Bicocca di Milano.
Sono iscritta alla facoltà di Servizio Sociale ed attualmente mi trovo al terzo anno del percorso universitario.
Il tempo libero lo passo facendo la baby-sitter a tre bambine, di cui una adottata ed inoltre, durante la mia esperienza di Tirocinio (svolta il secondo anno) mi sono occupata di adozioni nazionali presso il Tribunale per i Minorenni di Milano.
Da queste mie esperienze in ambito di adozione, sono rimasta molto colpita dalle caratteristiche, dalle attitudini, dalla forza e dalle emozioni che mi hanno trasmesso i genitori adottivi con cui mi sono relazionata.

Essere genitori naturali significa avere figli con i quali si condividono tratti fisici e caratteriali, figli desiderati a lungo o figli arrivati senza aspettarselo, figli nati dall’amore e spesso dai sacrifici di due persone o figli nati “per sbaglio” da genitori tra cui l’amore viene meno.
I genitori adottivi invece, sono coniugi che coltivano a lungo il desiderio di diventare madre e padre, genitori la cui attesa non dura pochi mesi ma spesso lunghi e quasi infiniti anni, anni di preparazione per poter essere valutati genitori idonei e per poter diventare mamma e papà di chi una mamma ed un papà per svariati motivi non li ha. Essere genitori adottivi significa dare una famiglia a chi non ha la fortuna di averne.

Essere genitori è compito dettato dall’amore, ricco di domande a cui solo tale sentimento può dare risposte; compito difficile, come detto poco fa, e gli ostacoli aumentano per i genitori non di sangue.
Questi ultimi, prima di poter creare una propria famiglia con figli adottivi, devono superare lunghi periodi di attesa in cui coltivano il desiderio, sognano e si preparano a quel fatidico giorno che in alcuni casi purtroppo fino ad allora non è mai arrivato. Durante le mie esperienze mi sono sempre relazionata con coniugi sterili in attesa del primo figlio e di adozione in ambito nazionale, non internazionale. In tutti i casi da me osservati ciò che viene premiato nella valutazione della coppia è l’amore, la complicità e la spontaneità.

Mi sono sempre chiesta come mai troppe famiglie desiderano adottare dei figli e spesso attendono anni e anni per poi non riuscire a realizzare il bisogno di creare e dare una famiglia.
Dall’altra parte, inoltre, ci sono troppi bambini che attendono famiglia per lungo tempo.
Con queste mie esperienze sono riuscita, in parte, a dare una risposta a queste mie domande.
Durante il Tirocinio mi sono occupata specificatamente di bambini in stato di adozione con storie sofferenti, complicate e contorte, con, alle spalle, genitori naturali con problemi gravi e non risolti nel tempo, nonostante gli aiuti dei Servizi. Bambini riconosciuti alla nascita, non orfani e con genitori naturali problematici; fanciulli che vivono da anni in Comunità per minori. L’adottabilità di questi bambini, con queste caratteristiche famigliari alle spalle, avviene solo dopo lunghi periodi burocratici, dopo svariati tentativi di recupero della famiglia. L’Assistente Sociale ‘non toglie’ i bambini alle famiglie naturali anzi, in questo caso, se i tempi di adottabilità di tali bambini, in ambito nazionale, sono cosi lunghi è proprio perché si tenta in ogni modo il recupero da parte della famiglia d’origine. Spesso, però, da parte di questa vi è l’abbandono, il rifiuto del progetto di aiuto e dello stesso figlio, l’irreperibilità e la non risposta ai frequenti richiami d’obbligo da parte del tribunale ed infine definizione dello stato di adottabilità di un bambino.
D’altra parte, invece, ho notato come molto più veloci siano i tempi di adottabilità di un bambino non riconosciuto alla nascita, verso cui non subentra il rischio giuridico (adottato entro circa 30 giorni dalla nascita).

Un genitore adottivo dopo l’immensa attesa può riuscire a realizzare il grande sogno.
Ho visto genitori piangere dalla gioia, ho visto l’amore negli occhi e negli sguardi di chi per lungo tempo ha creduto in questo cammino, ho visto camerette e giochi che da tempo attendevano bambini, vestitini di svariate misure, azzurri e rosa che attendevano l’arrivo di qualche d’uno… un bambino di cui sconosciuto è il sesso ma ancor di più l’età, bambini con storie molto probabilmente travagliate, o bambini non riconosciuti alla nascita con cui condividere tutto dai primi giorni di vita.
In ogni caso è bene essere pronti a questa nuova avventura, essere pronti a non nascondere nulla, ad essere chiari, a non confondersi, a dare disponibilità, cura e sicurezza ad un bambino che forse nel tempo l’ha persa, a trovare le parole più giuste e adatte per raccontare una storia, la loro storia.
Tante domande e infinite risposte…ma quando questi interrogativi arrivano da bambini adottati bisogna avere risposte chiare, sicure, che mettono ben alla luce la realtà dei fatti, risposte soddisfacenti che diano sicurezza e forza e non creino ulteriori vuoti.
Bisogna essere in grado di affrontare ogni fase critica legata all’età del bambino, ogni difficoltà legata alla storia del nuovo arrivato ed inoltre bisogna imparare a conoscere e riconoscere le sue caratteristiche fisiche e caratteriali nei quali un genitore adottivo può non ritrovarsi, che può non capire e spesso può avere difficoltà ad accettare.
Essere genitori adottivi non è da tutti, è un compito difficile, un cammino lungo e pieno di ostacoli che prima di poter affrontare bisogna accattare dentro di sé.
Un genitore adottivo è molto di più di un ‘genitore di pancia’, il genitore adottivo è il ‘GENITORE DEL CUORE’ colui che, nonostante le evidenti diversità che lo dividono dal figlio, nonostante la fatica, gli sconforti, le continue messe alla prova, la paura di non farcela, il timore di non saper dare risposte a tante domande, nonostante l’angoscia di dare ulteriore sofferenza a chi forse ne ha avuta troppa, nonostante la paura di non capire chi è totalmente diverso perché nato ‘dalla pancia’ di altri; ci mette l’intero cuore per amare e dare il meglio ad un bambino che dal suo ‘cuore’ è nato.

Gloria Caspani