Chi sono gli Hikikomori?

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Il termine Hikikomori significa letteralmente “isolarsi”, “stare in disparte” e fa riferimento ad adolescenti e giovani adulti che decidono di non aver alcun contatto diretto con l’esterno rinchiudendosi nella propria stanza per lunghi periodi, addirittura anni.

Questo fenomeno è caratteristico del Giappone ma sembra svilupparsi anche in altre società occidentali, inclusa l’Italia.

In Giappone del problema non si parla molto perchè imbarazza, perchè sconvolge l’immagine di un paese che vuole apparire combattivo.
Di chi pratica
hikikomori si pensa che sia un debole che vive alle spalle della famiglia e della società; in realtà potrebbe essere una forma di contestazione nei confronti di una società frenetica, quale è il Giappone, che non dà la possibilità di sbagliare, che alimenta d’altro canto un senso di inadeguatezza rispetto a ciò che essa stessa richiede.
Hikikomori non è riconosciuto come una patologia dal Ministero della Sanità, del Lavoro e del Welfare del Giappone, ma può seriamente portare ad ammalarsi a causa dell’isolamento prolungato.
La famiglia spesso “protegge” questa chiusura perchè se ne vergogna e chiede aiuto solamente in casi estremi.
In alcune ricerche è stato riportato che l’88% dei casi di
hikikomori madre e figlio hanno un rapporto di dipendenza, un rapporto simbiotico, che può portare ad un atteggiamento ambivalente da parte di chi lo pratica: da una parte si gode delle eccessive attenzioni, dall’altra il sentimento di oppressione convoglia in aggressività nei confronti della madre (unica figura familiare che storicamente si prende cura della casa e dei figli a causa dell’assenza del marito-padre che dedica la propria vita al lavoro).

L’antropologa e ricercatrice Carla Ricci ha pubblicato alcuni libri sull’argomento, l’ultimo (2014) è intitolato “La volontaria reclusione. Italia e Giappone, un legame inquietante”.
Secondo lei “
Hikikomori rappresenta uno dei tanti esiti imprevisti delle società contemporanee più ‘ricche’. La società è sempre più complessa, più competitiva, più arrogante ed anche più tecnologica ma senza la preparazione psicologica dei suoi soggetti ad esserlo. I giovani sono eccessivamente protetti dalla famiglia, più narcisisti, meno inclini ai sacrifici e meno sensibili a diventare indipendenti, tutti elementi che possono favorire la resa finale, cioè hikikomori” , ed è un fenomeno destinato ad aumentare nel nostro Paese proprio per la comunanza di questi tratti tra Italia e Giappone.

In Italia hikikomori è associato alla dipendenza da internet, l’antropologa ritiene che essa “porti con sé il bisogno inconsapevole di qualcosa che non si sa cosa sia ma che manca”.

Carla Ricci non ritiene, purtroppo, che esista alcun intervento sociale risolutivo. Attribuisce alla famiglia un ruolo fondamentale e dichiara: “Il fardello penoso che rappresenta per la famiglia la realtà del figlio recluso e la scelta non scelta di diventare hikikomori del giovane potrebbero creare una opportunità di fruttuosa, creativa e trasformativa esperienza individuale ma anche comune, capace forse di scoprire sensi e significati là dove ora non ci sono”.

Consiglio la visione di un corto animato del regista Jonathan Harris il quale rende bene l’idea di chi è un hikikomori: https://www.youtube.com/watch?v=50Y7R5zP0wc

Roberta Fina

Italia, il paese dei campi.

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Nel 2014 l’istituto di ricerca statunitense Pew Research Center ha condotto un’indagine sull’ostilità nei confronti dei rom in sette paesi d’Europa: l’Italia è il paese nel quale l’intolleranza e la diffidenza verso i rom sono più diffuse. Nel 2014 sono stati infatti registrati 443 episodi di violenza verbale contro i rom, di cui 204 gravi, e l’87% di questi episodi è riconducibile a dichiarazioni più o meno formali di esponenti politici.

Nonostante la percezione comune della popolazione, facilmente manipolabile e modificata dalle propagande discriminatorie dei politici e dei mezzi d’informazione, in Italia abitano 180 mila rom, l’equivalente dello 0,25 % della popolazione totale, una delle percentuali più basse in Europa. Tra questi, metà è di nazionalità italiana e solo il 3% è nomade. Le regioni dove si registra la presenza più massiccia di rom sono il Lazio, la Campania, la Lombardia e la Calabria (dati del rapporto 2014 della “Associazione 21 luglio”, impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinti in Italia).

Tuttavia le molte condanne arrivate da parte di istituzioni europee e internazionali, dal 2000 l’Italia è definita come “il paese dei campi” per l’enorme diffusione di questa modalità abitativa – fortemente ghettizzante e segregante, voluta dalle forze politiche e finanziata con le risorse dello Stato – che non rispetta gli standard di sicurezza internazionali, ma presuppone una continua violazione dei diritti umani, ostacolanti qualsiasi forma di integrazione.
I campi vengono collocati volutamente lontani dalle città, in zone dove i mezzi di trasposto sono perlopiù inesistenti, e quindi distanti da quei servizi primari ed essenziali come le scuole, gli ospedali, i negozi ecc. e dagli eventuali posti di lavoro. Altra criticità riscontrabile facilmente nei campi rom sono le scarse condizioni igienico-sanitarie.

Malgrado le problematiche elencate del sistema dei campi note a tutti gli esponenti del panorama politico, nel 2012 sono stati costruiti nuovi insediamenti nei comuni di Roma, Giugliano in Campania, Carpi e Milano, coinvolgendo 1.600 rom per un’ ammontare di spesa di 13 milioni di euro.

Nel 2014 sono aumentati anche gli sgomberi forzati. A Roma ne sono avvenuti 34, per un totale di 1.135 persone, mentre a Milano in vista dell’apertura dei cantieri dell’Expo, i numeri sono raddoppiati: sono state sgomberate 2.276 persone nel corso di 191 operazioni di sgombero.
Oltre a violare il diritto internazionale secondo cui le persone sgomberate dovrebbero ricevere un’alternativa valida e una notifica scritta (cosa che non è avvenuta nella stragrande maggioranza degli sgomberi di Roma e Milano), queste operazioni possono considerarsi poco funzionali perché, spesso, i rom ricreano autonomamente nuovi insediamenti in altri luoghi.

Infine, dal rapporto della ”Associazione 21 luglio” emerge che i bambini rom in Italia hanno il 20% di probabilità di iniziare un percorso scolastico, l’1% di probabilità di frequentare la scuola superiore, mentre le probabilità scendono a zero quando si parla di Università. La metà dei bambini rom inseriti nel sistema scolastico abbandona la scuola nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria, mentre nel passaggio tra la scuola media e la scuola superiore la percentuale di abbandoni sale al 95%.

Una piena e pacifica integrazione dei rom in Italia è un obiettivo ancora molto lontano, soprattutto perché, spesso, sono le istituzioni stesse ad ostacolarla. Se però ognuno di noi iniziasse a prendere coscienza del fatto che i rom hanno diritti uguali ai nostri e che un tempo eravamo noi italiani ad essere ghettizzati ed emarginati in paesi stranieri, un passo avanti verso un miglioramento delle loro condizioni di vita verrebbe fatto.

Giulia Armano

LOOK AT MI

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LOOK AT MI è stato il titolo emblematico di una mostra fotografica, effettuatasi nella città di Milano, che ha accompagnato il convegno PERSONE SENZA DIMORA: STORIE E SERVIZI SOCIALI, tenutosi il 13 maggio 2015 in Bicocca.

Le tre parole non sono casuali: sono state scelte per catturare l’attenzione dei partecipanti al convegno e per farli riflettere sulla necessità di (ri)vedere il concetto complesso di “Senza fissa Dimora”, dato che – utilizzando le parole di una studentessa che ha partecipato all‘attività: – “ se non si fa attenzione diventano invisibili”.

Diventano invisibili le persone “senza fissa dimora” e la portata del fenomeno …

Diventano invisibili ed isolati gli interventi istituzionali e dell’associazionismo previsti …

Con il rischio di rimanere intrappolati nel buio e nella vaghezza degli stereotipi che si sviluppano su questo fenomeno.

Innanzitutto, vi è l’esigenza di fare chiarezza su questo fenomeno; quindi, è necessario riportare alcuni dati statistici: a Milano, nonostante le difficoltà di un attendibile censimento, sono quasi 5000 gli adulti (sia italiani che immigrati) privi di casa; 531 vivono per strada, 2016 nelle strutture di accoglienza, 2300 nelle baraccopoli, nei campi nomadi ed in edifici dismessi.

Si conta che l’84,8% siano uomini, mentre il 15,2% siano donne; la fascia di età tra 45 ai 54 anni è quella con una più alta percentuale di senza tetto, pari al 27,2%.

Infine,si conta una maggiore incidenza di immigrati sia in strada che nei centri di accoglienza (italiani in strada sono il 17%, nei centri il 23,47%; immigrati in strada sono l’83% nei centri il 76,45%).

Questi dati rimarrebbero però incompleti se non li accompagnassimo al significato attuale di “senza fissa dimora”; com’è stato spiegato durante il convegno, il termine fa riferimento ad un fenomeno di grave emarginazione adulta; esso include persone non solo senza dimora fisica, ma senza alcun luogo od opportunità di relazioni sociali come, ad esempio, persone senza lavoro ma con famiglia o casa , oppure con casa ma in grave disagio economico ed eventualmente psichico.

In particolare, queste persone sono accumunate da caratteristiche quali:

  • INVISIBILITA’, intesa come diritti negati. Ad esempio, il mancato riconoscimento di una residenza anagrafica pregiudica il loro accesso ai servizi;

  • VULNERABILITA’, dovuta sia alla carenza di risorse economiche personali, sia alla presenza di elementi di rottura che facilitano l’incedere in questa condizione (ad esempio perdita di lavoro, perdita della casa, un lutto, una separazione) ;

  • MULTIFATTORIALITA’ del fenomeno di emarginazione, dovuta all’eventuale assunzione di alcool oppure di sostanza stupefacenti;

  • PROGRESSIVITA’ nell’impoverimento sia economico che relazionale ed affettivo, per la mancanza di reti formali o informali di sostegno;

  • ESCLUSIONE DAL SISTEMA DI WELFARE, dovuta alla mancanza di una residenza anagrafica e ai tempi burocratici necessari per fissare un appuntamento con i servizi preposti.

Negli interventi successivi è stato poi ricostruito il panorama delle diverse forme di sostegno e delle tipologie d’intervento a favore dei senza fissa dimora; esse si basano sull’integrazione tra attori pubblici e privati, con l’obiettivo di creare una rete sociale sufficientemente solida da dare supporto e sostegno agli interessati.

In quest’ottica d’integrazione, s’inserisce molto bene anche la questione relativa alla prossimità e all’avvicinamento alle persone senza dimora da parte dei servizi; essa tenta di scardinare l’impronta assistenzialistica degli interventi – rivolta al soddisfacimento dei bisogni primari – per attivare un coinvolgimento delle persone in progetti di sviluppo dell’autonomia.

A tal proposito, rientrano in questi progetti, l’“Educativa di Strada”, l’ “Housing Sociale” e le “Ronde della carità”; queste ultime sono unità mobili che affiancano attività di volontariato ad attività di consulenza, fornita da educatori e assistenti sociali.

In conclusione, nell’esigenza di fornire chiarezza su questo fenomeno, si è evidenziata la necessità di “… ampliare gli sguardi per ampliare migliori interventi”, che possano integrarsi e ridefinire quelli attuali, allineandosi con l’evoluzione e la complessità che il concetto di “senza fissa dimora” comporta.

Arianna Sacchelli

Persone senza dimora

Controrazzismo

Frà! Non ce la faccio più…Hai visto su facebook?! Questi parlano di “Brembo Nostrum”…Io ogni tanto non ci capisco più fuori niente.

Nel senso che vado dal medico di base coi ragazzi e in sala d’attesa i signori che parlano in dialetto contro gli immigrati si girano a guardarmi quando si accorgono che li sto fissando e si dicono: “Ehi, abbassa la voce che l’italiano ci sta ascoltando!” e dall’altra parte in ospedale le segretarie dell’odontoiatria mi dicono: “ma lavori in un centro di accoglienza?! Ah, sono quelli che arrivano sulle barche! Ma che bravooooo….”. E mi sorridono come se fossi un confetto rosa con un fiocco sulla testa, dolce e carino…con Ansu, seduto al mio fianco, per il quale traduco, che sorride col suo sguardo ebete, che sembra un uovo di pasqua penso, cioccolata fondente….. nel mezzo di questi discorsi, c’è un vuoto fatto di resistenze, di silenzio duro come il cemento. Mi sento Stretto tra due poli così distanti dalla realtà che viviamo che mi viene difficile spiegare…. Mi piace fare questo lavoro e mi piace vestire la mia pelle bianca…per testimoniare che anche con la pelle bianca si può essere accoglienti…alle volte, però, vorrei essere tra loro ed avere la pelle nera per sentirmi più prossimo…per sentirmi meno bianco…perché le loro aspettative sono le stesse che tu, operatore, vorresti che realizzassero…ma a volte senti di vendere solo del fumo e alle volte te li ritrovi per la strada…perché lo sappiamo tutti che i più sfigati finiranno per la strada a fare l’elemosina…si dice che di solito siano i nigeriani….Quelli un poco più “intraprendenti”, invece, andranno al sud a gonfiare le tasche di qualche camorrista padrone, a fare la fame per un euro a cassetta di arance o pomodori ….

I più “svegli”, invece, i più svegli finiranno per la strada a vendere il fumo…lo stesso che tu gli vendevi con le parole loro finiranno a staccarlo con i denti per cinque euro il pezzo. Finiranno a vivere tra i giardinetti con il fumo in bocca, a tagliarlo con la merda e a rassegnarsi al loro essere il negro della strada. A mostrare i bicipiti per il gusto di giocare un ruolo, ritagliati in se stessi, con il passo morbido e deambulante, piegando il ginocchio come si direbbe di uno zoppo, molleggiandosi con la testa alta, con l’orgoglio di essere tanta bellezza, perché “è più facile usare il proprio corpo come merce che il cervello come strumento di giudizio”, ha detto Pezzi di vetro…

che poi questi altri dicono ancora fratello e sorella…che bestie pensiamo……quanto sono africani gli africani, pensiamo…freddi e razionali siamo ben consapevoli che la parentela riguardi solo i legami di sangue…che non abbia nulla a che vedere con l’intensità di un legame, o con il modo di porsi…non pensiamo che chiamano fratello e sorella i coetanei e mamma e papà gli adulti….non pensiamo che se si perdono al mercato e hanno bisogno di aiuto fermano qualcuno di più anziano e gli dicono “ehi papà mi sono perso” oppure “ehi mamma, mi sono perso, aiutami”…oppure, “fratello, aiutami”….non l’abbiamo manco nemmeno mai provata quella vicinanza lì…non sappiamo cosa voglia dire sentirsi soli e trovare una madre ed un padre sulla strada…sconfitti ed annebbiati dall’individualismo di essere solo per noi stessi…presi nelle cuffie di discorsi solipsistici, intrappolati nell’ansia incomunicabile di “riuscire” e di “essere

La prima accoglienza, un intervento profondo…non può ridursi a vitto, alloggio, kit…non può ridursi ad una coperta e un “pasto caldo ed un buco x la notte”..non può essere e non è così…è in questa fase che il potenziale eroe si prepara ad un secondo rito di passaggio…certo, attraversando il mare si può affermare che la prova sia stata effettuata…ma detto francamente l’happy-end mi sembra ancora lontano…c’è ancora un mondo davanti, un mondo cui non si è preparati…un mondo che è il contrario del mondo da cui provieni…lì, nel mondo davanti, per sopravvivere, devi camminare a testa in giù e con il viso immerso nell’acqua…devi prendere fiato e trattenerlo e devi gestire lo sforzo e devi soprattutto riuscire a comprendere le cose stando sottosopra…quando parli ogni cosa che dici si capovolge e i tuoi interlocutori prendono il verso inverso di ciò che gli hai appena detto…a loro arriva il contrario anche se tu, dentro di te, lo dicevi dritto…e devi parlare giocando a scacchi, pensi alla mossa successiva prima di dire una parola…sei sempre al dopo, già nel momento in cui la pronunci…stai pensando al dopo….e così parlare diviene una partita lenta e faticosa…anche quando devi chiedere un pezzo di carta da culo…non sai come chiederlo… come non sai esprimere che ti senti sciocco e come un bambino che si confida a mamma quando devi ammettere che non dormi da giorni e che hai bisogno del medico perché c’hai addosso la tristezza…che vorresti andare in farmacia per comprare dei farmaci. “Prastamol!”, ma il paracetmolo lenisce il dolore e agisce sul manifestarsi della malattia, non va alla radice del problema…e la pelle gratta e non tanto per il freddo pungente di Bergamo ma perché è il disagio del presente, del passato e di quel futuro non futuro che crea prurito…e soprattutto tormenta la notte…nel silenzio assoluto quando a far rumore sono solo dei pensieri fastidiosi e assillanti che ronzano nella testa…
E così in cerca di risposte…nell’immobilità totale ciò che si ascolta è il corpo…la testa fa male, così come il ginocchio, la schiena e l’occhio lacrima… dammi i farmaci…non riesco a dormire…ma mi domando quali mali e quali malesseri dovrebbero curare questi farmaci???

Forse cerco un orgasmo nel mezzo di tutta questa stitichezza emozionale. Ho bisogno di solidità. Ho bisogno di sentirmi stabile e centrato e se mi guardo, qui, vedo bianco e, di lì, vedo nero e non mi sento mulatto e ci vedo ad elastico, a volte vicino e a volte lontano. Ci vedo un caleidoscopio di vita, che si ribalta e rigira e a volte mi sento sottosopra.

C’è una storia di una coppia di vecchi signori, che erano sposati da tanto tempo, così tanto tempo che non si ricordavano più perché si erano sposati. Un tempo vicini, avvolti uno nel corpo dell’altra, adesso vivevano la stessa casa di sempre ma con assoluta distanza. Lui viveva sottosopra, con i piedi al soffitto. Bisogna fare un piccolo sforzo per comprenderne l’essenza. Vivevano in due differenti gravità. Una che tira verso il soffitto e una che tira verso il pavimento. Nel soffitto, come sul pavimento del resto, la casa era arredata e tutto stava al suo posto. Cambiavano solo i punti di vista…in questa loro prossima distanza non perdevano occasione per litigarsi il frigorifero, le seggiole e la televisione, scambiandosi grugniti e sguardi tesi. Lui aveva mani grandi e ruvide e lavorava il legno ed il ferro. Lei ricamava la maglia e curava i fiori alle finestre. Da quando si erano allontanati, da quando vivevano su due discorsi paralleli, la casa aveva preso a fluttuare nel cielo. Girando all’impazzata come una trottola aveva smesso solo quando durante uno dei frequenti litigi avevano distrutto la cornice con la foto del loro matrimonio (per inciso, lui voleva il riquadro dal suo lato della casa, mentre lei la voleva girata dal proprio). A quel punto lui per porvi rimedio aveva riparato un paio di scarpe da ballerina che lei indossava durante il matrimonio, chissà quanti anni prima. La storia finisce con un rumore di chiodi piantati nel legno. La donna stava fissando tutte le sue scarpe al soffitto, il pavimento della parte di casa del marito dunque. Lui la guardava incredulo non capendo cosa stesse facendo e capì solo quando la vide fare un grande balzo ed infilarci i piedi dentro. Solo in questo modo riusciva a stare sottosopra e a camminare verso di lui, al suo fianco. Penso spesso che sia importante coltivare querce per non calpestare le formiche perché a volte, ed ogni volta all’improvviso, faville fioccano disordinate.

“è la vita, un giorno va bene l’altro va male, l’importante è restare in piedi con i capelli al vento, l’importante è che mi adatto come posso a questa emanazione di una variante assurda di paradiso errato, come ha detto chissà quale poeta africano” Alain Mabanckou

Scritto da Tobia Scarrocchia, per il nostro Convegno “Persone senza dimora: storie e servizi sociali”

Io ci sto @ Fare Diversamente.

 
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C’è uno strano “verdufiore”, metà carciofo e metà rosa. Un’immagine diversa per abituarci a pensare alla diversità come ricchezza, come novità, come voglia di fare cose nuove.

E’ questo in sintesi quello che accade con la Rete del F@re Diversamente, un insieme di cittadini, volontari, associazioni, enti pubblici. Insomma un gruppo di persone che in modi diversi – anche strani – hanno a che fare con la diversità e che sono stanchi di parlare di disagio ma che vogliono gridare al mondo che le cose si possono fare diversamente. Insomma loro lo fanno diverso e si divertono pure.  E molto.

Basta guardare cosa accade sulla pagina Facebook del F@re Diversamente o, per chi abita a Rho e zone limitrofe, in città. Un proliferare di rose e carciofi e di inviti a dire tutti insieme “Io ci sto @ Fare Diversamente.

Non si tratta di un appello lanciato nel vuoto. La chiamata alla diversità è per sabato 23 maggio, a partire dalle 10, presso l’Auditorium di via Meda a Rho.

Un gruppo diverso e molto nutrito di artisti, esperti, volontari e professionisti si riuniranno per raccontare, cantare, illustrare scelte di vita diverse che vale la pena conoscere.

L’incontro sarà ricco di musica, performance, immagini. Non mancherà il cibo per lo stomaco e, soprattutto, per la mente. Tutto all’insegna della diversità.

L’iniziativa nasce all’interno di un progetto più ampio i cui protagonisti sono quelli che nel freddo linguaggio della burocrazia, anche quella che ha un impatto sociale,  vengono chiamati “utenti dei servizi”: persone in condizioni di disagio che sono per la prima volta i veri protagonisti delle attività e motore di cambiamento.

Tre gruppi di lavoro per nove mesi hanno lavorato sul tema della diversità, con lo scopo di individuare nuove forme di comunicare la disabilità e il disagio, anche sul web e nelle scuole, a contatto con i più giovani.

Gli ospiti che parteciperanno all’incontro del 23 maggio saranno chiamati a raccogliere una sfida diversa. Ognuno di loro avrà al massimo tre minuti per raccontare l’essenza della diversità nella loro esperienza di vita, invitando il pubblico a voler lasciare una testimonianza e la volontà di affermare “Anche io ci sto a fare diversamente”.

Il pubblico, grazie a rose e carciofi, potrà partecipare ed esprimere il proprio parere sul valore della diversità, oltre a ballare – letteralmente – in modo diverso, ognuno al proprio posto.

La partecipazione è gratuita e aperta al pubblico.

Tutte le informazioni sono disponibili su http://www.farediversamente.it

Noi ci stiamo a Fare Diversamente. Tu cosa aspetti?

Una realtà celata..la realtà degli homeless.

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Il numero dei senza dimora è in continuo aumento e, alla base di questo evento, non ci sono solo casi eccezionali o storie di particolare emarginazione ma sempre più spesso incontriamo persone con storie di quotidianità. Le cause che portano le persone a perdere un posto in cui vivere sono molteplici: una separazione, uno sfratto, ed ultimamente la perdita del lavoro; queste situazioni se non supportate in modo adeguato portano gli individui a sentirsi invisibili e ai margini della società. Questa situazione rende difficile anche il lavoro dei servizi che non riescono ad intervenire concretamente sia per la difficoltà di censire tali persone che dalla complessità dei bisogni che essi portano. A queste difficoltà si aggiunge il pregiudizio e l’indifferenza della gente che spesso vede il clochard come persona pericolosa. Il sostegno offerto a queste persone è un lavoro di sostegno effettuato da associazioni che operano in maniera coordinata sul territorio. Uno di questi è il servizio di Unità di strada che svolgo da circa tre anni presso la Croce Rossa Italiana. Tale servizio nella pratica consiste nel portare alle persone che vivono per strada qualcosa da mangiare, qualche vestito e del tè caldo (beni che ci vengono donati dalle aziende presenti sul territorio o da donazioni volontarie di cittadini). L’obiettivo principale del servizio è quello di instaurare una relazione con le persone, farli sentire accolti e ascoltati, cercare di dare voce e attenzione a persone che difficilmente riescono ad averne, ma soprattutto poterli indirizzare verso i servizi di cui necessitano. L’intervento della Croce Rossa è infatti, in questo caso, volto a favorire il supporto e l’inclusione sociale delle persone vulnerabili cercando, attraverso relazioni di fiducia, di attenuare le urgenze dei bisogni, creare contatti con i servizi sociali e progettare, ove possibile, interventi personalizzati. Il contatto con i servizi sociali, in particolare con il CASC (centro di aiuto della stazione centrale), risulta fondamentale per cercare di non rendere questo servizio puro assistenzialismo perdendo così il significato primario, cioè quello di sostenere la persona nella sua globalità e cercare di creare con essa la consapevolezza e gli strumenti per emergere da una situazione in cui risulta estremamente complesso dare una svolta.

La mia scelta di iniziare questo percorso è stata dettata dalla voglia di poter fare qualcosa di concreto per delle situazioni caratterizzate da grave marginalità, situazioni che spesso quotidianamente ignoriamo. L’idea con la quale sono partita era  completamente diversa da quella davanti alla quale poi mi sono trovata. Ci si trova a offrire un semplice tè a persone che non hanno niente ma che in realtà sono in grado di darti tutto. Sono persone che raccontano poco di sé anche se la loro storia si legge nei loro occhi. Mi sono chiesta più volte come reagire davanti a una realtà come questa, caratterizzata da persone che vivono una condizione ai margini della società; risulta ovviamente impossibile risolvere tutte queste casistiche o poter effettivamente cambiare tutte le situazioni con le quali veniamo in contatto, ma anche solo l’ascolto e la comprensione riescono a donare la forza e la gioia di poter continuare consapevoli che qualcuno sa della loro esistenza e che è presente per loro.  Purtroppo la situazione dei senza dimora è complicata e questo servizio non permette di risolverla, ma anche se non sono mai abbastanza, le persone che hanno trovato la forza di andare avanti e che hanno trovato lavoro grazie anche al nostro sostegno, ti permettono di fare il turno con la voglia e la forza di credere che qualcosa comunque si riesca a fare. Nel nostro piccolo noi cerchiamo di aiutare coloro che ce lo permettono e almeno qualche volta alla settimana portiamo del sollievo, dei sorrisi e dei grazie che ti accompagnano poi per tutta la settimana.

 

Barbara Scotti

La violenza sugli anziani: una realtà celata

 

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“L’Italia è un Paese che invecchia”, “continua a crescere il numero di anziani” … Quante volte abbiamo udito o letto queste frasi? Quante volte però ci siamo soffermati a riflettere sull’impatto che questo fenomeno può avere sulla nostra società?

Il continuo aumentare del numero di anziani modifica drasticamente la struttura della popolazione, perché vi sono sempre più persone non autosufficienti che necessitano di cure continue; la società si trova così di fronte al grande problema dell’assistenza agli anziani e fatica a controllarlo, dato che questo ha reso veramente difficile riuscire a gestire la spesa sanitaria.

Per esigenze di contenimento di spesa, infatti, in Italia, l’assistenza agli anziani non autosufficienti resta anzitutto a carico dei familiari; vi è una carenza di servizi di assistenza formale e ciò si ripercuote pesantemente sulle famiglie degli anziani, che continuano a farsi carico delle attività di cura e di aiuto, molte volte non avendone le capacità per farlo.

Questo può generale nei caregivers informali forti stati di stress, preoccupazioni, ansie e paure che possono condurli, in casi estremi ma non rari, ad agire violenza sull’anziano di cui si prendono cura.

Ma i problemi non finiscono qui, perché il fenomeno dei maltrattamenti sugli anziani non rimane circoscritto solo all’ambito domestico; infatti, anche laddove intervengono i cosiddetti “servizi formali”, non sono rari i casi di abusi e violenze da parte di operatori che dovrebbero occuparsi di assistere gli anziani. Questo accade soprattutto perché i caregivers formali, proprio come quelli informali, sono spesso sottoposti ad enormi pressioni e non sempre ricevono una formazione e un sostegno che diano loro l’opportunità di svolgere in condizioni migliori il loro lavoro.

È dunque chiaro che qualcosa nella gestione di questo fenomeno non funziona, che vi sono delle carenze gravi da parte del sistema di welfare e che il problema stia un po’ sfuggendo di mano. L’impressione è, però, che non si stia facendo nulla di concreto per ovviare a tale situazione; anzi, sembra che i casi di maltrattamenti, sia in ambito domestico, che nei servizi di cura, siano in drastico aumento.

A conferma delle mie ipotesi, cercando nel web, ho trovato che il fenomeno della violenza sugli anziani, effettivamente, è poco conosciuto, non soltanto in Italia, ma anche a livello mondiale, soprattutto perché molto spesso, questi fatti, rimangono nascosti; nella Seconda Assemblea Mondiale sull’Invecchiamento, tenutasi a Madrid nel 2002, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha presentato un rapporto dal titolo “Abuse of Older Person” che esamina gli abusi commessi su persone anziane in tutto il mondo, rivelando che questi sono estremamente diffusi, ma che solitamente non vengono denunciati.

La domanda che pongo a questo punto è: è possibile intervenire attivamente per modificare questa situazione e cercare di contenere il più possibile questo problema? L’OMS ritiene che, su questo punto, ci si debba muovere su tre fronti: quello della consapevolezza, quello dell’educazione e quello della difesa; nasce la necessità di intervenire in ambiti diversi per tutelare la vittima, perseguendo finalità di prevenzione, riparazione e contenimento del danno, e attivando progetti capaci di rispondere alle esigenze di sicurezza sociale.

Per affrontare il problema concretamente, gli interventi maggiori dovranno focalizzarsi su un’“educazione alla consapevolezza”; attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica bisogna aiutare le persone a non considerare le violenze sugli anziani come problemi esclusivamente familiari, ma di tutti, sollecitando a denunciare.

In generale, dovranno essere messe in atto azioni volte a contrastare la violenza sugli anziani; occorrerà investire sui caregivers, sia formali che informali, aiutandoli ad affrontare le loro esigenze e difficoltà. Proprio per questo sarà necessario riorganizzare tutti i servizi coinvolti, attivando corsi di formazione per operatori che si trovano a stretto contatto con anziani non autosufficienti, per meglio prepararli a gestire le situazioni; bisognerà lavorare anche con le famiglie, aiutandole ad esprimere le proprie preoccupazioni e a gestire meglio il loro rapporto con i familiari anziani, rendendole però consapevoli del fatto che non occorre annullarsi e sacrificare la propria vita per svolgere questo compito.

A questo proposito, vorrei ricordare che è presente una “Carta Europea dei diritti e delle responsabilità degli anziani bisognosi di assistenza e di cure a lungo termine”, sottoscritta nel 2010 da “Age”, la piattaforma europea delle persone anziane, e da altri partner europei, tra cui anche “Fipac”, la Federazione Italiana dei Pensionati del Commercio, con l’obiettivo di aprire una discussione negli Stati Membri su come meglio riconoscere i diritti delle persone anziane più vulnerabili, e di incoraggiare l’utilizzo di buona pratiche; questa carta è accompagnata anche da una particolare guida anti-discriminazione, volta a difendere la dignità delle persone anziane, valida sia per caregivers formali che informali.

Secondo gli esperti, il dibattito sui maltrattamenti agli anziani è oggi al punto in cui era la discussione sugli abusi nei confronti dei bambini 30 anni fa: si inizia appena a parlarne … E’ chiaro che la strada è ancora lunga e c’è ancora molto da fare, soprattutto perché il problema è ancora poco visibile. Tuttavia, non bisogna arrendersi e continuare a consapevolizzare le persone rispetto a questo fenomeno, ricordandoci sempre che la prevenzione inizia solo con la consapevolezza; solo in questo modo sarà possibile restituire agli anziani la loro dignità, permettendogli di soddisfare i propri diritti fino alla fine.

Federica Tripputi

 

Siti consultati:

geragogia.net/editoriali/violenza.html

europa.eu/news/…/080318_1_it.htm

eccertificate.eu/uploads/media/guida-eustacea.pdf

formas.toscana.it/rivistadellasalute/…/05-pagliara.pdf

http://www.academia.edu/1719088/Esigenze_di_supporto_dei_familiari_che_

assistono_e_rischi_di_maltrattamento_dellanziano_levidenza_empirica_dallo_studio_EUROFAMCARE

IL VOLONTARIATO EUROPEO A BURGOS: UN’ESPERIENZA INDIMENTICABILE

Scrivo queste poche righe per condividere una delle esperienze che più hanno segnato positivamente la mia vita. Descriverò una imperdibile opportunità alla quale si può accedere dai 18 ai 30 anni ossia l’ European Voluntary Service (EVS), ora chiamato Erasmus +.

In cosa consiste? Ufficialmente EVS “offre ai giovani l’opportunità di partecipare su base volontaria ad un’attività di utilità sociale e senza scopo di lucro, in un paese diverso da quello di provenienza. Attraverso il Servizio Volontario i giovani contribuiscono al processo di coesione sociale e alla solidarietà e possono accrescere in maniera considerevole le loro abilità e competenze personali, professionali e interculturali”.

I progetti di EVS hanno generalmente una durata minima di due mesi e una massima di dodici. I progetti possono essere svolti in associazioni i cui campi di azione sono svariati: progetti sociali, ambientali, culturali e molti altri. Attraverso il link di seguito potrete consultare i nuovi progetti approvati: http://europa.eu/youth/evs_database

Oltre al lavoro nell’associazione ogni progetto EVS offre ai volontari: una casa condivisa solitamente con altri volontari, pasti, e sostegno linguistico.

Il mio progetto ha avuto una durata di sette mesi e con certezza posso dire che è stato uno dei periodi più arricchenti e densi della mia esistenza.

Ho vissuto a Burgos, nella regione della Castilla y Leon in Spagna, e appena arrivata in città i comuni pregiudizi positivi rispetto al clima spagnolo si sono dissolti a contatto con la sua tiepida estate, dove è necessaria la copertina per dormire di notte anche il 15 di agosto! Un argomento che può apparire banale come quello del clima è solo un esempio di come viaggiando si possano rafforzare o contraddire idee generali sul mondo, e queste scoperte (di qualsiasi ordine di rilevanza) sono proprio uno degli aspetti più emozionanti dell’esperienza di ogni viaggiatore.

Ho lavorato dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 14.10 alla Comunità Terapeutica del Proyecto Hombre (PH) per la riabilitazione di persone con tossicodipendenze e/o ludopatie, un’ associazione il cui seme è germogliato in Italia ma che in seguito si è radicata sostanzialmente in tutta la Spagna.

Nello specifico come volontaria ho dovuto accompagnare gli utenti nelle loro diverse gestioni: andare dal medico, all’ospedale, in tribunale, in carcere. Questi luoghi non sono certo una casualità, infatti le persone che si portano sulle spalle lunghe storie di tossicodipendenza si trovano spesso, come conseguenza dell’abuso di droghe, in contatto con il carcere e ancora più frequentemente sono soggette a complicanze sanitarie di varia natura. Tra le patologie più tipiche si riscontrano perdita dei denti e talvolta AIDS o Epatite C.

La comunità è sorretta dal lavoro di sei terapeuti e uno dei compiti dei volontari è quello di aiutarli nell’organizzazione della comunità. Ad esempio li ho supportati durante i nuovi ingressi, a volte sostituendoli come responsabile del giorno; ho effettuato alcuni colloqui con gli ospiti per la compilazione di test psicologici, e ho organizzato e somministrato farmaci.

Ma il compito principale è stato instaurare con gli utenti una relazione “sana” caratterizzata dal non giudizio, ascoltarli e appoggiarli personalmente durante il loro inserimento in comunità, il cui processo ha durata normale di circa un anno. Vivere in comunità è difficile per gli utenti perché tutti hanno personalità distinte e storie personali e familiari complesse. Si trovano inoltre in una fase della vita caratterizzata da molta sofferenza in cui oltre ad abbandonare la sostanza, affrontano i loro più profondi problemi interiori.

Un altro aspetto critico rispetto alla buona riuscita del processo terapeutico è certamente l’aumento del numero di persone la cui dipendenza ha portato o enfatizzato problemi di natura psichiatrica, dovuti all’abuso e al policonsumo di sostanze sempre più chimiche.

Non nascondo la mia paura prima di partire: non sapevo dove fosse la città sulla cartina geografica nè tanto meno parlavo lo spagnolo! Durante il mio soggiorno a Burgos però ho frequentato una scuola di lingue per 10 ore alla settimana, possibilità messa a disposizione dal progetto stesso.

La bellezza di questi progetti è proprio l’occasione che ti danno di apprendere, tante e diverse cose.

E voi siete mai partiti per un progetto EVS, lo fareste? Mi piacerebbe condividere altre storie e soprattutto incitarvi a partire!

Monica Lutzu

“Non occorre guardare per vedere lontano”

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Anni fa andai con un’amica in via Vivaio all’Istituto dei ciechi di Milano, per svolgere il percorso chiamato “Dialogo nel buio”. Rimasi profondamente colpita da quell’esperienza diversa, difficilmente replicabile in altri contesti per chi è vedente.

Il percorso inizia una volta formati dei gruppetti da 6-8 persone; ad ognuno dei componenti viene consegnato un bastone. Dopo di che ci si addentra nella struttura dove, inizialmente, vi è ancora luce, ma, a mano a mano che si percorre il corridoio, la luce inizia ad affievolirsi sempre di più fino a che non si arriva al buio completo.
Ricordo che una volta trovatami nel nero più totale, la sensazione che ho provato è stata quella di paura mista a smarrimento, ma tutti siamo stati subito rassicurati dalla voce della nostra guida che si è presentata e ci ha chiesto di presentarci a nostra volta.
La guida ci ha spiegato che il percorso si sarebbe svolto ovviamente tutto al buio e che avremmo attraversato varie stanze che rappresentavano luoghi differenti; per cui, in ogni stanza, avremmo incontrato suoni, odori, materiali differenti che ci avrebbero aiutato a capire in quale posto ci trovavamo. Non potendoci affidare alla vista dovevamo lasciarci guidare solo dagli altri sensi con l’aiuto del bastone.
Non ricordo più in quante stanze siamo passati, rammento però di essere stata su una barchetta, quindi di aver sentito l’acqua e l’ondeggiare tipico di un’imbarcazione, e di esser rimasta piacevolmente sorpresa nell’aver riconosciuto facilmente il legno della struttura della barca una volta salita all’interno di essa.
L’episodio che però mi ha colpito estremamente è stato quando, ad un certo punto del percorso, mi ero allontanata un po’dal gruppo e la guida mi disse: “Veronica non andare troppo avanti, aspetta gli altri”. Risposi con un “Ok” che mi venne spontaneo; ma quando pensai che una persona non vedente, che per di più non mi conosceva se non da qualche minuto, mi aveva riconosciuta fra tutti gli altri componenti del gruppo, rimasi sbalordita.
Solo in quel momento ho realmente capito quanto queste persone riescano a dare importanza a quei particolari e a quelle piccolezze (che per loro non lo sono affatto), per comprendere la realtà che li circonda. Come affinare l’udito riconoscendo il modo di camminare delle persone, proprio come la guida aveva fatto con me.
E’ incredibile come riescano ad utilizzare al massimo tutti quei sensi che noi trascuriamo, o che comunque utilizziamo minimamente perché li consideriamo secondari; loro riescono a completare la visione del mondo con il tatto, seguendo gli angoli di oggetto che diventa un libro; con l’olfatto, riconoscendo un odore che arriva dalla strada; con l’udito, cogliendo quelle sfumature nei toni delle voci delle persone che li rendono unici; con il gusto, assaporando un buon gelato che si scoglie in bocca.
Consiglio a tutti di provare questa esperienza unica e molto particolare poiché “ti fa vedere” il mondo in un altro modo. In quell’ora di percorso cogli delle accezioni e dei significati che nella vita di tutti giorni non noti nemmeno, mentre lì dentro ogni dettaglio diventa importante e ogni particolare ti aiuta a completare il tuo puzzle.
Non metto in dubbio che la vita di una persona non vedente sia difficoltosa per molti aspetti, ma, sentendo la guida parlare, non ho colto rassegnazione nella sua voce o tristezza; semplicemente raccontava quante altre cose si possono apprezzare quando non si ha la possibilità di vedere con gli occhi, ma lo si può fare con tutto il resto del corpo.

Veronica Sammarco

La via dell’artista – Come ascoltare e far crescere l’artista che è in noi.

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Autrice: Julia Cameron.

Quand’è stata l’ultima volta che avete avuto l’impulso di disegnare? Che siete entrati in un museo? Che avete scritto i vostri pensieri come vi venivano in mente? Che avete danzato? Forse non riuscite nemmeno a ricordarlo … Tutti noi abbiamo sognato di dipingere, ballare, scrivere, comporre musica, ma poi, spesso, abbiamo rinunciato a quel sogno, convinti di non avere sufficiente talento per l’arte.
Ci siamo giustificati con gli impegni della casa o del lavoro, oppure nascosti dietro il timore, la vergogna, i sensi di colpa. Nessuno, infatti, ci ha mai spiegato come dare forma a quelle passioni, a quegli slanci creativi che spesso proviamo e che ammiriamo in certi personaggi della cultura e dello spettacolo. La via dell’artista comincia proprio dall’idea che l’espressione artistica non sia qualcosa di artificiale o d’innato, bensì la naturale direzione della vita di ognuno. Una direzione che va scoperta al di là delle paure, seguita amorevolmente, abbracciata con tutti noi stessi. Non c’è bisogno di lunghi tirocini né di sofferenze inaudite per “creare”: basta capire come mettersi in ascolto di se stessi. Nel percorso tracciato da Julia Cameron imparerete proprio come sia possibile diventare artisti, superando quei blocchi psicologici e pratici che, come una fitta nebbia, v’impediscono di scorgere le vostre potenzialità. E’ un percorso che si articola in dodici settimane, durante le quali farete degli esercizi semplicissimi, che però daranno risultati sorprendenti. Non importa quali siano le vostre abilità, le doti che credete ( o non credete) di possedere: la via dell’artista è aperta. Se siete pronti a cambiare- in meglio- la vostra vita, allora questo è il libro che fa per voi.

Daniela Raccagni.